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Il vino di Tano
Il barone Valastro Guarnera di Burgio stava spingendo a tutta forza il suo purosangue lungo la strada sterrata che da Pizzo d'Elsa portava sino a Santo Stefano, quando il povero cavallo - estenuato e schiumante - mise una zampa in fallo e rovesciò il cavaliere nel bel mezzo di una macchia di rovi.
Il barone percorse una parabola di geometrica bellezza prima d’immergersi tra i rami spinosi del cespuglio, ma rovinò l'effetto estetico del volo urlando un bestemmione apocalittico nel momento in cui alcune spine ingrate gli si conficcarono nelle carni. Poi il barone reiterò urla e bestemmie mentre cercava di districarsi dal cespuglio. Questo, nonostante i modi poco urbani dell'uomo, pareva non volersene separare e l’avviluppava e lo legava a sé sempre più, mentre quello - sempre insultando santi e madonne - con una mano si proteggeva gli occhi e con l'altra allontanava rami e spine. Insomma, fortuna volle che il barone portasse robusti guanti da cavallerizzo; chissà, altrimenti, in quali condizioni gli si sarebbero ridotte le mani. Nello stesso momento in cui il barone forzava l'andatura del cavallo, in un campo poco distante Tano Gullì conduceva placidamente un grande trattore rosso attraverso un maggese fresco fresco, con le zolle ancora odorose di letame. Giunto nei pressi della sterrata, decise di concedersi l'ultima Nazionale senza filtro strizzata nel pacchetto che teneva nel taschino del suo camicione di flanella. Arrestò il trattore ed estrasse sigaretta e cerini, ma l'occhio gli cadde sul fiasco malizioso che occhieggiava da sotto la giacca di fustagno che lui stesso ci aveva gettato sopra per proteggerlo dai raggi del sole.
"Eh, sì" pensò Tano, "è proprio il momento di tastare questo vino". Si accertò che il freno a mano fosse ben tirato e ripose con cura il pacchetto stropicciato e la scatolina dei cerini dentro la tasca della camicia. Quindi si chinò sotto lo sterzo e agguantò il collo del fiasco.
- Vediamo se sei buono come penso - sussurrò, e con le mani callose e nocchiute inizio a sfilare il tappo di sughero, che venne fuori con uno schiocco netto e sonoro. Tano sorrise: il suono era indice della liquorosa bontà del contenuto. Quindi sollevò il fiasco e lo incollò alle labbra, intenzionato a ingoiare una sorsata generosa. Fu proprio mentre prendeva il primo sorso che vide il barone sopraggiungere cavalcando a gran velocità e finire sbalzato di sella.
Fu tale la sorpresa che gli andò il vino di traverso, e un violento colpo di tosse glielo fece sputare tutto sul volante e sul rudimentale cruscotto del trattore. Dopo aver poggiato con cautela il fiasco sul sedile di guida ed essere smontato con un balzo dal mezzo, Tano corse verso il luogo dell'incidente, sicuro di trovare il barone riverso tra i rovi con l'osso del collo spezzato.
Invece, quando lo raggiunse, questi si trovava vivo e vegeto con le mani guantate a respingere i rami spinosi. Lo aiutò a divincolarsi dal cespuglio.
- E finalmente che è arrivato qualcheduno... chi sei? Gullì?... E che ci voleva la sirena per farti venire ad aiutarmi? - disse il barone, cui non parve vero di potersi sfogare con un essere umano anziché con un imperturbabile vegetale.
- Signor barone, venni appena vidi il succeduto - rispose Tano facendo l'espressione più preoccupata di cui fu capace, - ma come vi sentite?... che vi siete strazzato i vestiti lo vedo... non è che vi rompeste pure qualcos'altro?
- Non ci sperare. Piuttosto, va' a riprendermi il cavallo, va'...
Tano partì alla ricerca del purosangue nero del barone. Il cavallo, per fortuna, s'era fermato poco distante e si stava dissetando a un abbeveratoio all’ombra d’una macchia di lecci. Avvicinatosi all’animale, ne afferrò la cavezza e se lo tirò dietro dolcemente, riconducendolo verso la sterrata.
Il barone Valastro non era più vicino ai rovi, ma se ne stava appoggiato a una delle grandi ruote posteriori del trattore, sorseggiando tranquillamente il vino del fiasco di Tano. Questi, avvicinandosi, si avvide che glielo aveva ridotto di un buon quarto.
- Gullì, questo vino è troppo buono… Ma non è cosa delle vigne che curi tu. Dove l'hai preso? - chiese il barone mentre Tano legava il cavallo al trattore.
- Vossia, signor barone, con tutto il rispetto, è un grande intenditore che ha bevuto tutti i vini più famosi e saporiti, ma questo non l'aveva tastato mai, vero? - fece Tano con un sorriso soddisfatto.
- Gullì, ora mi fai la tiritera? Che vino è questo?
- Questo è il vino di giugno, quando si miete il grano e non si può bere acqua, sennò se ne va tutta in sudore e non si riesce a lavorare più. - rispose Tano. - Vossia l'ha mietuto mai il grano sutta ‘u suli a lliuni?
- Gullì, mi stai prendendo per il culo? Te lo ricordi chi sono, vero? Sono il padrone della terra che tu hai a mezzadria, quello che ti permette di lavorare e campare la famiglia. Te lo scordasti?
- No, signor barone, u’mmu scurdai.
- E ora me lo spieghi dove hai preso questo vino? - riprese il barone, buttando giù un'altra sorsata e pulendosi la bocca con la manica della giacca.
- Bivissi, bivissi, signor barone. Buono, vero? Questo è il vino d’jnnaru, quando si potano gli olivi e serve qualcosa di caldo nne vini per riscaldare le mani che tengono serra e accetta.
- Ancora, Gullì!… Non è che te ne devi approfittare solo perché hai capito che sono curioso di una cosa che sai solo tu. Che vino è questo?
Altra sorsata.
- Questo è il vino ddu vaccaru che si alza ogni mattina alla quattro per badare alle vacche del barone, e pure prima quando devono sgravare, mentre ‘u baruni dorme in città perché è andato a una festa e una vacca non l'ha vista sgravare mai.
- Ho capito Gullì, ti sei parlato anche tu con quel comunista che lavorava nella zolfara. Come si chiama?... ah, Saro Puglisi. Va bene, siccome prima o poi capirai con chi stai parlando e mi dirai da dove minchia hai preso questo vino, io intanto mi siedo qui, - e si sedette per terra, all'ombra della ruota del trattore - che, tra l'altro, 'sto vino deve pure essere bello forte, perché mi sta facendo girare la testa, - ruttò mentre si stringeva il fiasco in grembo - e tu mi reciti tutto il papello che t'ha insegnato Puglisi. Ti prometto che non t'interrompo e me l'ascolto fino all'ultima parola. Basta che alla fine mi dici dove hai preso 'sto vino... - nuova sorsata - speciale.
- Ragione avete, signor barone, ché davvero speciale è. E' il vino del mezzadro che raccoglie l'uva e resta nella vigna fino a tardi, mentre il barone sta seduto davanti alla tovaglia bianca racamata e si beve il vino dell'anno prima, che non è bbonu comu a chistu, però! Bivissi, bivissi, signor barone
- Non ti preoccupare, Gullì, che me lo bevo tutto il tuo vino.
- Bivissi, che questo è il vino del villano che s'innamorò della figlia del campiere ddo baruni, e si mise in testa di sposarsela, e tanto bramò che ci riuscì e ci fece pure tre figli. Bivissi stu vinu dilicatu, perché è fatto con la disperazione di chi ogni giorno lascia ‘a saluti ne campi mentre qualcuno si ci mancia u cori, e la moglie che lui ha amato e riverito come una madonna gli dice che l'ha sposato solo perché era incinta di uno che non se la poteva sposare e un fesso qualunque doveva trovarlo. Bivissi stu meli da vigna, signor barone, che un uomo cchiu orbu ddi l’orbi veri aveva preparato per berlo nei momenti cchiù bbeddi che non sono arrivati mai, e che ha sempre pensato che forse non se li meritava. Che quando tornava a casa la sera la moglie gli diceva di andarsene a dormire, perché di figli ne aveva già abbastanza. Che quando era proprio disperato è andato dal signor barone e quel...
- Accura, Gullì! Non esagerare, che ancora non sono ubriaco.
- ... gran signore gli ha detto che ci avrebbe parlato lui ca mugghieri.
- E difatti ci ho parlato.
- Solo che si era fatto i conti male, perché anche se il signor barone gli aveva detto di andarsene a lavorare che ci pensava lui, stu poviru viddanu ha voluto ascoltare di nascosto le parole del signore, e ha scoperto che era lui quello che la moglie non s'era potuto sposare, e che, per giunta, ancora continuavano a ficcare di nascosto.
- Tano, ma che minchia stai dicendo? - disse allarmato il barone, con gli occhi lucidi di ebbrezza alcolica.
- Sto dicendo che un povero disgraziato, quando scopre che non ha più amore, non ha più casa, che l'hanno sempre imbrogliato supra i cosi cchiù sacri, solo una cosa gli resta di fare.
Il barone cercò di rimettersi in piedi, ma le gambe non lo ressero e ricascò a terra. Tese una mano con il palmo aperto in direzione di Tano, come per proteggersi da lui.
-Signor barone, che fa, si scanta? Non se lo ricorda che cosa ci disse quella volta a ma mugghieri? "Quello è un cretino preciso. Il bambino più grande havi già sei anni e non ci simigghia ppi nnenti; eppure lui ancora non s'è accorto ca nun è figghiu so’. Certo che te lo sei scartato proprio bene il minchione!". Signor barone, avevate ragione: proprio un minchione sono! E che può fare uno così? Chi ci resta ‘i fari?
Il barone Valastro, ormai, lo guardava a bocca aperta. Tano continuò.
- S'ammazza! Signor barone, che altro può fare? Però, siccome è un viddano e no n’omu di panza, si scanta di sèntiri duluri e si procura il vino più dolce delle vigne della provincia, il veleno meno amaro che c'è, e se ne va da solo n’menzu ai campi. Solo che nemmeno in mezzo ai campi u baruni può lasciarlo in pace. Allora, signor barone, non ci potevate stare mezza giornata senza farmi n'angaria, senza rubarmi quarchiccosa? Pure questo vino che m'ero preparato apposta dovevate prendervi?
Libbertà
Il paese ci accolse in silenzio. Il comandante precedeva la colonna sul suo grande cavallo nero; aveva l'aria spavalda, come sempre. Non gli avevo mai visto mostrare indecisioni e a volte mi faceva paura l'assoluta inespressività dei suoi occhi. Avanzavamo in mezzo alla polvere che le scarpe malandate dei soldati sollevavano dalla trazzera ripida e irregolare. Giunti all'altezza delle prime case la trazzera si mutò in un acciottolato irregolare, meno ripido ma ugualmente polveroso. Il caldo era atroce e le borracce erano vuote anche se erano passate solo due o tre ore da quando le avevamo riempite l'ultima volta.
Dalle minuscole porte dei bassi ci scrutavano donne tristi e rattrappite, vestite di nero. Un vecchio piangeva in silenzio. Uomini dall'espressione sperduta ciondolavano indecisi per le strade.
Mentre scalavamo il versante sul quale si affacciava l'abitato li avevamo visti, quegli uomini. Scuri di barba incolta, rimanevano a osservarci dall'alto, accoccolati sui talloni e con le mani giunte in mezzo alle cosce. - Occhio! - aveva esclamato il comandante Bixio. - Se fanno segno di spararci o di rovesciarci addosso sassi o altre porcherie, ammazzatemeli tutti. - Ma quelli erano rimasti immobili, disinteressati spettatori, a guardarci; come se il nostro arrivo riguardasse altri.
Nella piazza principale vedemmo i primi segni del massacro. L'edificio del catasto bruciato; macchie di sangue sul selciato davanti al portone di un grande edificio dalla facciata barocca. - Hanno scannato pure il notaio - sentii mormorare da un soldato della mia compagnia. Intimai il silenzio.
Dall'alto del campanile pendeva un tricolore. Il vento lo aveva arrotolato contro l'asta e solo un misero lembo rosso riusciva a sventolare. Senza energia.
Ci acquartierammo nel municipio, che dava sulla piazza principale e sorgeva proprio accanto al catasto con le imposte carbonizzate e il tetto crollato. Mentre ci sistemavamo alcune persone si avvicinarono al comandante. Avevano atteggiamento umile e strizzavano le coppole tra le mani. Gli dissero qualcosa che, troppo distante, non sentii. - Andate - rispose brusco il comandante. - Io non sono quel minchione del Poulet.Gli uomini che arrestammo urlarono e giurarono la loro innocenza. - Nenti fici. Nuddu mazzai. U viditi comu sugnu? - urlava uno di loro. Arrivava, in altezza, appena al petto dei soldati che lo strattonavano e non capivano le sue parole perché erano quasi tutti liguri e lombardi. Il sindaco del paese fu l'unico che si comportò con dignità. - Ho fiducia nella giustizia dei liberatori di questa nostra isola sfortunata - proclamò al sottufficiale che gli metteva i ferri ai polsi.
Degli altri tre non ricordo molto. Per la verità ho cercato di dimenticare. Di uno so che era molto giovane - sui vent'anni, o poco più. Mi somigliava, anzi, avrei potuto essere io se la mia famiglia non fosse fuggita via dalla Sicilia dodici anni prima, portandomi, ancora bambino, con sé. Faceva il taglialegna, e aveva braccia robuste e grandi mani callose.
Il giorno dopo giunse la Commissione di Guerra per giudicare gli arrestati. La presiedeva un maggiore cinquantenne dalla faccia paffuta. Non riuscivo a immaginarmelo con la toga del giudice. Volle parlare col comandante e gli chiese dove avesse rinchiuso gli assassini. Poi discussero a lungo su quale fosse il posto migliore per la fucilazione. - In bella vista - disse il comandante. - Che sia d'esempio. Però un posto sicuro. Che non rimbalzi qualche palla e non acciacchi qualcuno. - Avete avuto problemi a prendere il paese? - chiese il maggiore. - Nessuno, per loro fortuna - disse il comandante. - Solo quello ci sarebbe voluto. Versare ancora sangue per dare a questi animali una libertà che nemmeno capiscono.
Il tribunale si riunì nell'aula consiliare del municipio. Il processo durò in tutto meno di quattro ore. Alle dodici vennero notificate le accuse agli imputati e fu detto loro che le testimonianze a discolpa avrebbero dovuto essere presentate entro le quattordici. Alle tre del pomeriggio si presentarono due preti che il maggiore ricevette solo per rispetto del loro abito. Rimasero a colloquio nel municipio per dieci minuti o poco più. Poi vidi emergere l'ufficiale dal portone; uno dei due preti, il più anziano, lo tratteneva per la toga, mentre l'altro, pallidissimo, rimaneva in disparte. - Signor giudice, in nome di Nostro Signore... - E' tardi - Ma è un'ingiustizia. Il sindaco Lombardo era in guardina quando è successo tutto. Lo hanno arrestato la mattina stessa che è stato affisso il decreto di disarmo. - Si era detto alle quattordici. La testimonianza non è ricevibile. - Il maggiore liberò la toga dalle mani del prete e lo fissò sprezzante. Poi andò via.
Alle dieci di sera fu pronunciata la sentenza: pena di morte per fucilazione. Alle dieci e quindici minuti il comandante mi fece chiamare. - Miceli, comanderà lei il plotone di esecuzione. Domani alle otto del mattino sul piano di San Vito, contro il muro della chiesa, sul lato della canonica. - Sentii un sudore freddo corrermi lungo la schiena.. - E' impallidito, Miceli. Sta bene? - Vorrei essere esentato, colonnello. - Non dica bestialità. Può andare.
* * *
Il rasoio scorreva docile sulla mia pelle abbrustolita dal sole inclemente di quell'agosto terribile. Seduto su una cassa delle salmerie me ne stavo davanti al municipio, sotto la chioma di un grande ippocastano. Mi radevo alla luce del sole appena sorto, godendo del silenzio in cui il paese era ancora immerso. Sentii il nitrito di un cavallo, le imprecazioni di una sentinella cui tardavano a dare il cambio. Lo specchietto incrinato nel quale mi riflettevo bastava appena a contenere metà del mio viso, e mentre indispettito cercavo la posizione giusta per la passata successiva, notai qualcosa. Una scritta sul muro della chiesa, proprio dove avremmo fucilato i cinque condannati.
Mi levai di scatto. Stavo per chiamare a gran voce la sentinella e rimproverarla, forse anche denunciarla per inettitudine, perché quella scritta, la sera prima, non c'era. Poi lessi la parola per il verso giusto: LIBBERTA', scritto con la parte carbonizzata di un tizzone. Ristetti. Cosa ci faceva una parola così in quel paese di senza Dio? Avevano ammazzato donne indifese, scaraventato infanti giù dai balconi, massacrato uomini perbene senza alcuna pietà. Che ne sapevano della libertà quegli uomini che, con le mani tra le cosce, ci avevano visto giungere al paese senza opporsi, pure se sapevano che portavamo con noi la punizione per le loro colpe? Quella terra bruciata dal sole e dall'avidità dei baroni, immersa nel silenzio e nella paura, poteva celare in sé una consapevolezza di libertà?
Che ne sapeva quel paese delle parole e degli ideali che avevano infiammato il mio animo di ventenne e mi avevano ricondotto nella terra dalla quale i miei genitori erano stati costretti a fuggire?
Mi costrinsi a rievocare i ceffi dei condannati. Cercai di rappresentarmeli in mente: sguardi obliqui di chi cela una natura violenta; fronti sfuggenti dell'individuo dedito al vizio e alla violenza. L'analisi fisiognomica di quegli uomini non mentiva, mi dissi, e veniva confortata nelle sue conclusioni dai fatti nei quali erano coinvolti. Cercai di convincermi che meritassero la condanna. Non ci riuscii. Mi tornò invece in mente il nano. U viditi comu sugnu? Rividi i suoi occhi pieni di terrore.
Terminai di sbarbarmi meccanicamente. Poi indossai la giacca dell'uniforme e il cinturone. Controllai che la sciabola fosse lucida. Provai il movimento che avrebbe ordinato il tiro. Ordinai al sergente di compagnia di far preparare gli uomini. - Faccia loro lucidare i fucili. Ultimamente ho notato troppa ruggine. Oggi avremo tutti gli occhi su di noi.
Il comandante Bixio mi raggiunse pochi minuti dopo. - E quella scritta? - mi chiese. - Non so. Ieri sera non c'era. - Consegni la sentinella... E la faccia levare. Per l'ora dell'esecuzione voglio quella parete pulita.
Trasmisi l'ordine al sergente, che a sua volta incaricò due soldati semplici. Lavarono la scritta con lisciva e dure spazzole dalle setole metalliche. In meno di mezzora il muro della chiesa non recava più tracce di libertà.
* * *
Avevo già combattuto. Avevo già ucciso. Ma quella cosa non era combattere, non era uccidere in battaglia. Non era nemmeno comandare una compagnia nell'assalto ed esporre per primo il petto al fuoco della fucileria nemica. Cinque uomini stavano inginocchiati, col viso rivolto al muro della chiesa. Il taglialegna piangeva. Da quando si era appartato con la madre, che aveva voluto sussurrargli la sua benedizione, non riusciva a frenare i singhiozzi.
Mentre sollevavo la sciabola sopra la testa e i soldati puntavano le canne dei fucili contro le schiene dei condannati, pensai di ammutinarmi. Quel pensiero esplose improvviso, in un istante, occupò tutta la mia mente. Mi immaginai gettare la sciabola per terra e urlare: "No". Mi vidi già inginocchiato di fronte al muro della chiesa, attendere la scarica che avrebbe punito la mia ribellione.
Il silenzio era assoluto. Anche il taglialegna aveva smesso di singhiozzare. Tutti attendevano l'ordine. La sciabola pesava come tutto il mondo, come tutte le istanze di libertà di ogni popolo oppresso, come il dolore di ogni madre che deve vedere il figlio morire, ammazzato davanti ai suoi occhi.
Colsi con la coda dell'occhio un movimento. Il comandante Bixio mi si avvicinò con il suo passo svelto da brevilineo. - Cos'è, Miceli, debolezza di palle? - mi sussurrò ironico. Sentii una rabbia improvvisa montarmi dentro. Un'onda irresistibile di furore si impadronì di me. I miei occhi si riempirono di lacrime e le vene del collo divennero gonfie e turgide. D'improvviso la sciabola non mi sembrò più tanto pesante. Avrei voluto rotearla contro il viso irridente del comandante, spargere il suo sangue sulla polvere del sagrato e gridare Libbertà come avevano urlato gli uomini contro il muro.
Non so come successe. Un buon soldato deve obbedire agli ordini, non pensare. E anche quando pensa deve fare in modo che gli ordini vengano sempre eseguiti.
Calai con decisione la lama verso terra.
Quando urlai Fuoco avevo gli occhi chiusi.
L'incidente
L'incidente capitò alle 19 e trenta del 24 dicembre. Non fu un incidente particolarmente grave - appurarono che si era trattato solo dell'allentamento di una cinghia di carico ma abbastanza per scompaginare tutti i programmi per la notte. Però è meglio essere più ordinati, ché i fatti vanno raccontati nel giusto ordine.
Il negozio di cravatte aveva deciso di fare orario continuato per la vigilia. Chiusura alle 20. La cravatta è un regalo intramontabile, soprattutto se chi le vende ha l'accortezza di aprire una vetrina accanto a un negozio di computer. Da anni tutti l'elettronica era diventata la scorciatoia del regalo di Natale. In questo, si può dire senza tema di smentita, aveva sostituito le cravatte. Per chi - dubbioso, inconcludente e, per di più, giunto alla sera del 24 senza avere deciso il giusto regalo da piazzare sotto l'albero - la scelta del dono pendesse sul capo come una spada di Damocle, l'elettronica era ormai il passepartout delle buone figure. I telefoni cellulari, soprattutto. Con la videocamera, con suonerie mono, poli, cito e sinfoniche, satellitari e telescopici, colorati o tecnometallici, disegnati da uno stilista o copiati da un modello più costoso. Ce n'era per tutti i gusti. E così per i computer: i modelli da desktop, quelli notebook, quelli con il monitor al plasma, quelli che applicavano tecnologie dai nomi che erano virtuosismi di eufonie e doppi sensi linguistici, anche se in inglese, e che quindi richiedevano doppia cultura e doppia perspicacia per istigare un sorriso.
Ma parlavamo di cravatte.
Le cravatte erano per chi non si interessava di elettronica. Pare incredibile, ma in quel 24 dicembre Di un anno in principio del terzo millennio, esisteva ancora gente così.
Un vecchio zio emigrato in Australia e poi ritornato, il nonno geometra in pensione del comune, il mezzadro che curava quel fazzoletto di terra dove non si andava quasi mai; gente così, per la quale un pensiero, almeno quello, era d'obbligo, ma della quale non si conoscevano con precisione né gusti né idiosincrasie. Anche una cravatta è un passepartout di buone figure. Simbolo di perbenismo e ordine per antonomasia viene accettata in dono da chiunque.
Per questo il negozio di cravatte continuava a esistere, con un buon fatturato che aveva i suoi picchi in corrispondenza col Natale e con la festa del papà. Ed era aperto, pur sfruttandone l'effetto traino, anche dopo l'ora di chiusura dell'adiacente negozio di computers.
La signora Carmela Scroppo in Arcidiacono si accingeva a mostrare un campionario di articoli all'appuntato Grasso, che intendeva fare un regalo rispettoso ma non troppo impegnativo, a un maresciallo che lo aveva raccomandato per una questione riguardante suo figlio e certi ingressi gratuiti nella piscina comunale. Franco, che della signora Carmela era il marito, fingeva di sistemare alcune confezioni in uno scaffale basso. In realtà, con abili ancorché dolorosi torcimenti del collo, cercava di cogliere sulla vetrata che dava sulla strada semibuia il riflesso delle gambe accavallate di Tina Rossella, la commessa. La quale si era accomodata sul divanetto per meglio illustrare al ragionier Lavore - affascinante nonché scapolo quarantenne - le virtù di una paio di guanti, giacché anche di questo articolo - e di camicie, e biancheria intima maschile, e pedalini e altri capi simili - i coniugi Arcidiacono facevano commercio.
Quindi, riepilogando: la signora Carmela dietro il banco, l'appuntato Grasso innanzi a lei, Franco Arcidiacono chinato in posizione plastica ai piedi di uno scaffale. Poi la signorina Tina sul divanetto, indecisa se azzardare più esplicite allusioni all'indirizzo del ragioniere Lavore, il quale pensava ai guanti da acquistare e, pareva, a nulla più.
Infine - quasi non si notava - un signore su una poltroncina in tinta col divanetto. Nessuno aveva badato a lui. Doveva essere entrato qualche minuto prima, e notando tutti impegnati si era accomodato e aveva cavato un libro dalla capace tasca del cappotto. Leggeva avidamente. Nessuno gli rivolgeva la parola, ma anche lui sembrava avere dimenticato di essere lì. Leggeva in silenzio, gli occhi fissi sulle pagine.
Mi pare di non dimenticare nessuno. Ah, no. Sulla porta il nipote dei coniugi Arcidiacono, figlio della sorella di lei. Come ogni anno era venuto per salutarli. Come ogni anno, la zia gli avrebbe messo in mano un biglietto di banca di grosso taglio. «Zia, non dovevi.» «Non dire niente a tuo zio.» Un sorriso imbarazzato. «Grazie zia» sottovoce. Poi gli auguri allo zio. Altro biglietto di banca. No! Quest'anno i biglietti inattesi sarebbero stati due, ma il nipote - a proposito, si chiamava Franco, come lo zio -- non lo sapeva ancora. «Zio, non dovevi». «Non dire niente a tua zia». Altro sorriso imbarazzato. «Grazie zio.»
Franco - il nipote - già si immaginava la scena. Avrebbe voluto, almeno una volta, cambiare parole, espressioni, quanto meno la sequenza pianificata delle azioni di ognuno. Però aveva paura che gli zii se ne accorgessero. Temevano i cambiamenti, è chiaro: avrebbero venduto computer, altrimenti. I cambiamenti sono pericolosi. Generano riflessioni. Le riflessioni conclusioni, le conclusioni ulteriori riflessioni, troppe riflessioni generano, infine, immobilità. E dei biglietti di banca, ancorché inattesi, immobili nelle tasche dei proprietari, sono sinonimo di un nipote triste.
Per questo Franco decise, come ogni anno, che avrebbe proceduto come d'abitudine.
In effetti Franco non procedette affatto. Una mano guantata lo spinse dentro e lui cadde facciabocconi sulla moquette color tabacco del negozio. Dietro di lui emerse il proprietario della mano guantata: Tuccio Maugeri, anni quarantaquattro, ottima persona ma sfortunata, disoccupato di lungo corso, condotto sulla strada del crimine da alcune amare nonché notturne considerazioni sulle ingiustizie che il mondo riserva ai troppo buoni e agli onesti.
Il viso coperto da un passamontagna cento per cento acrilico, puntava con decisione la pistola giocattolo del figlio decenne Simone. Mentre il passamontagna gli procurava un prurito insopportabile sulle guance e sul collo, lo colse il dubbio atroce di non avere tolto il tappino rosso dall'arma.
Questo pensiero determinò principalmente due reazioni: un atteggiamento assai aggressivo e una esitazione che per poco non gli fu fatale. «Alzate le mani» abbaiò. Tutti alzarono le mani, anche l'appuntato Grasso. Maugeri però esitò sulla soglia proprio perché aveva riconosciuto il carabiniere. «E se quello mi spara davvero?» pensò senza entrare nel negozio.
Il grosso pacco lo beccò sulla testa proprio mentre formulava il punto interrogativo del suo pensiero. Al primo pacco ne seguirono altri, numerosi, che sommersero l'uomo col passamontagna.
Poi si udì il fragore in strada. Sembrava il classico rumore di un incidente stradale.
Corsero verso il rapinatore, con l'unica eccezione dell'uomo che leggeva, il quale rimase seduto a leggere. «Ahiaiai» gemeva Maugeri sotto il cumulo di pacchi. «Minchia!» esclamò il giovane Franco guardando in fondo alla strada. Tutti osservarono lo strano veicolo che aveva travolto un cassonetto verde per la raccolta differenziata. «Ma che è?» disse l'appuntato Grasso. «Ma che cos'è?» chiese con voce tremula la signorina Tina aggrappandosi sapientemente al braccio del ragioniere Lavore. «Non ci posso credere» esclamò Franco Arciadiacono.
Mentre l'appuntato Grasso, con ammirevole senso del dovere, provvedeva a liberare Maugeri dai pacchi onde procedere al suo arresto, gli altri corsero verso lo strano veicolo per cavarne fuori il guidatore.
Si ritrovarono tutti nel negozio di cravatte. Si compose il seguente quadro: Maugeri semisvenuto, sdraiato per terra e ammanettato; Grasso gli tergeva la fronte con un fazzoletto umido. Il guidatore del veicolo sul divanetto; gli altri tutt'intorno con espressione ansiosa.
Fuori dal cerchio, sulla poltroncina, c'era sempre l'uomo che leggeva; ma non dava segni di accorgersi di ciò che era accaduto, né nessuno gli chiedeva di cedere il posto.
Il conduttore dello strano veicolo - risultò essere una slitta a motore rossa, decorata di candele e strass -- era un signore corpulento, con folti barba e capelli bianchi, vestito di un abito rosso con guarnizioni di pelliccia ecologica candida.
Lo avevano trascinato nel negozio svenuto e non dava segno di voler riprendere conoscenza. «Cercate se ha i documenti» raccomandò Grasso, ancora impegnato con Maugeri. Cercarono. Non ne trovarono. In loro vece molte caramelle mou e due bastoncini di zucchero colorato. «Minchia, è incredibbile!» disse Franco il nipote. «Non dire le parolacce» lo rimproverò la zia Carmela. «Ahò, è lui, non c'è santi» concluse Lavore. «Lui chi?» miagolò la signorina Tina massaggiandogli il bicipite. «Rinviene?» chiese preoccupato Lavore. «Niente» disse la signora Carmela. Franco lo zio uscì e rientrò poco dopo. «E, procassone è ancora pieno di regali.» L'appuntato Grasso, visto che Maugeri si era ripreso levandosi a sedere, si avvicinò all'altro incidentato. «Ci sono feriti. Devo fare rapporto alla procura della repubblica» disse. E aggiunse: «Dovrei capire anche la dinamica del«l'incidente.» «I pacchi sono tenuti da una serie di cinghie. Ne ho trovata una allentata. Probabilmente si è spostato il carico.» Grasso sollevò un sopracciglio. «Comunque non credo che fare rapporto sia una buona idea» suggerì Arcidiacono. Grasso ci ponzò qualche istante, mordendosi il labbro inferiore con aria grave. Nella sua mente si accavallarono immaginai di slitte non omologate dal ministero dei trasporti, di verbali di denuncia per lesioni colpose a un rapinatore durante il corso di una rapina, delle facce dei superiori mentre leggevano il suo rapporto, delle inevitabili telefonate di persone molto in alto per mettere a tacere la cosa - uno così vuoi che non conosca nessuno?. «Mi sa che ha ragione lei» disse infine. E poi: «Però non si riprende. Chiamiamo un'ambulanza?»
«No, mi ricoverano.»
Era stato l'uomo sul divano a parlare, con voce insospettabilmente acuta. «Mi ricoverano e non posso.» «Ma nel suo stato è meglio fare un controllo» disse Grasso. «Ha ragione lui» intervenne la signora Carmela. «Avete visto che ore sono?»
Come in un pessimo racconto giallo, l'orologio delle chiesa madre batté le venti con venti rintocchi lugubri. L'uomo sul divano cercò di sollevarsi. «Devo andare via» disse. «Ce la faccio ancora a sfruttare qualche fuso orario e poi tornare qua per mezzanotte.» Ma lo sforzo fu troppo per lui: svenne di nuovo e ricadde sul divanetto con un tonfo sordo.
Grasso gli tastò il polso, ricordandosi di antiche lezioni di primo soccorso impartitegli ai tempi del corso allievi carabinieri. «Il polso è debole, ma regolare. Ha solo bisogno di riposo» sentenziò. Tutti trovarono più rassicurante credergli.
«E... la slitta?» chiese Franco il nipote.
«Già, i regali» convenne il ragioniere Lavore all'unisono con la signorina Tina. Quell'identità di pensiero li avvicinò anche nello spirito, giacché alla vicinanza fisica continuava a provvedere lei, ormai aggrappata al braccio del ragioniere in maniera cronica. Una piccola fiamma si accese in fondo al cuore del ragioniere, e irradiò calore da lì, in maniera centrifuga, sino a riscaldare ogni parte del suo corpo. «E, l'amore?» si chiese il ragioniere. E di quel pensiero ebbe paura.
Ma anche negli altri qualcosa stava cambiando. Nessuno rimase insensibile all'idea che una tradizione millenaria potesse essere interrotta dal banale allentamento di una cinghia di carico. Quasi inconsapevolmente le mani di ognuno cercarono quelle del vicino.
Anche Tuccio Maugeri sentì l'insopprimibile istinto di aggregarsi a quella neonata comunità, pur intralciato dalle manette, e ci riuscì, toccando i vicini coi gomiti. «Io c'ho la patente C» disse. L'appuntato Grasso cercò consenso negli occhi dei presenti. Tutti fecero un cenno positivo. Le manette furono aperte.
L'uomo sul divano cominciò a russare sonoramente. «Ve l'avevo detto che doveva solo riposare un poco» fece il carabiniere.
Raccolsero i pacchi in fretta e furia e li imbracarono bene, stringendo le cinghie a dovere. Nell'abitacolo c'era posto solo per tre persone. Per questioni di cavalleria, accanto a Tuccio Maugeri si accomodarono le due donne. La signorina Tina abbandonò con dispiacere il braccio di Lavore, e quando quel contatto fu interrotto anche il ragioniere ebbe un sussulto d'ansia. «Sono qui dietro» la rassicurò accennando al carico di regali. Lei gli sorrise. Lui ricambiò. Lei si irrigidì un po' quando si accorse che gli mancavano due premolari, ma fu subito sopraffatta da un'ondata di tenerezza. «E, l'amore?» si chiese anche lei.
Il ragioniere e gli altri uomini montarono a cassone, imbacuccati come esquimesi, perché la notte siciliana è calda, ma là dove erano diretti chissà.
L'uomo vestito di rosso continuò a dormire saporitamente sul divanetto. Il suo ronfare non disturbò assolutamente l'uomo che leggeva, giunto ormai all'ultimo capitolo del suo libro.
Quando la slitta partì, dopo una breve manovra di retromarcia, rimase ancora una mezz'oretta nel negozio, il tempo di finire il capitolo. Infine si sollevò in piedi, si sgranchì, sospirò e si guardò intorno.
«Non c'è nessuno?» fece perplesso. «Ma vedi tu che roba. Luci accese, porta spalancata... Certo che poi gli entrano i barboni a dormire in negozio.»
E con un'alzata di spalle uscì in strada, già pensando al nuovo libro che avrebbe iniziato a leggere.
Anche per quel Natale i regali furono consegnati tutti, regolarmente. Però qualche bambino, l'indomani, affermò che Babbo Natale indossava un passamontagna.