Vivono nel vuoto salvifico, l’ambito vuoto che svuota anche i resti elemosinati, quel po’ di sugo che riempia lo stomaco. Chissà se i cani sorridono… Di certo rimangono immobili, loro, quando passa il Grande Mondo, il Grande Pane che non li rispetta per il loro quotidiano, ordinario, pur sempre dolore: quello comune anche agli uomini. Nino fissa oltre il marciapiede quegli occhi dal naso umido come se si sentisse compreso in uno sguardo, in una condivisione di vuoti, di mancanze. Manca la madre che è ancora distesa sul letto di quell’impensabile costituito dall’assurdo della morte.
Non importa se in realtà non è lì, Nino la percepisce, in una morsa canina, stretta più alla morte che alla sofferenza vivificante. Un manichino, ormai, che ride perché deve far ridere anche quando c’è tristezza intorno. Un manichino in oblio, abbandonato in un lettino azzurro con la federa ricamata (dalla sua stessa mano?), con i capelli morti appoggiati sul cuscino, l’unico vivente.
Alla fine tutto il bene trova la sua ricompensa e tutto il male la sua punizione. Se non già in questa forma di vita, nelle ulteriori esistenze che cominciano dopo la morte. Ecco che il cane ride, ride la madre, ride Alessia, mentre Nino ha lo sguardo lontano. Anzi, non ha sguardo perché è così lontano che non gli torna indietro. Lo ha perso, forse, dietro la tenda di trent’anni fa e non ricorda quale tenda sia, per tentarne il recupero. Allora organizza un teatro privato in cui rivivono mamme morte, dolori primitivi, fantasmi di donna e cani dimezzati, perché anche lui e’ morto perché primitivo perché fantasma perché dimezzato.
Nino, dimezzato, attore non protagonista, deve distanziarsi dalla sua tenda (verde, rossa, gialla, non ha importanza… la sostanza della memoria è in bianco e nero), deve recuperare quel pianto che non ha mai versato lacrime, perché lui non era lì a piangere con il piccolo Nino. Il bacio sulla fronte mancherà del contatto. La stanza 16 sarà una stanza che confinerà con la sua anima; nulla potrà entrare. Quel ricordo senza memoria, pianto senza suono, o lacrime senza bruciore, saturerà la mente, come ghiaccio consolidato, solido e mummificato che troverà risoluzione nelle caratteristiche del vapore.
Non può bastare la morte (né la propria né quella altrui), quella morte che a volte è un’arte, a far trovare le tende perdute, aprirle, lasciare entrare i raggi che sciolgano l’iceberg, l’Io indicibile di Nino. Adesso i ricordi - padroni tiranneggiano nella sua vita, davanti a un letto di morte che non è il suo. La vita aveva aperto le tende e li aveva uniti per sempre… perché ciò che un tempo è stato diviso tornerà a ricongiungersi.
La vita di chi non c’è più si stringe a quella di chi resta… in un’esplosione di frammenti d’anima che s’incuneano nel profondo degli occhi restituendoci immagini sempre fresche di fantasmi, perché la vita è più forte di una tenda… ma la tenda ha gli strappi, le lacerazioni, i significanti di una vita altrimenti deserta.
Sembrava che quel cane ridesse e Nino, sorridendo, alzò la mano, salutò, anche lui con il naso umido, il cane: - Ciao… - e pensò ai contemporanei che, come i loro nomi che indicano le vie marginali degli agglomerati, passano per quei meandri ancora insaturi di memoria, della periferia del pensiero, tuttavia arricchendolo. Nino percorre via…, scorge alcune facciate ancora incomplete, mentre una palla grigiastra rotola lungo il lieve pendio e si ferma oltre i pilastri di un cancello aperto. Nessuno a rincorrerla, nessuno corre a prenderla.
Dice a se stesso che non può provare solitudine per quella palla, non può meravigliarsi di questi pensieri.
Prosegue, lasciando la strada del senso sempre aperta e come indecisa, per scrupolo.
Giulio Santoro