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Piazza Armerina

Poesie e Racconti

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Lunedì, 17 Settembre 2012 08:49

Ferdinando di Borbone: L'indesiderato dai siciliani

Palermo, Maggio 1806

Un triplice rullare di tamburi. Poi la voce tonante e ritmata del banditore: "Udite, udite cittadini!: Domani, il nostro amato Re Ferdinando secondo di Borbone - Dio lo protegga! - lascerà la Reggia per un lungo viaggio nel suo amatissimo Regno".
Poi, ancora un triplice rullare di tamburo seguito dalla solita litania "Udite, udite, cittadini...". E così, via, via, per le stradine della Vucciria, del Borgo, del Cassero o per la monumentale via Maqueda.
Ora, non è che ai palermitani interessasse più di tanto che il Re stesse in Reggia o che se ne allontanasse, ma se il Re parte bisogna fargli i dovuti omaggi adunandosi, in gran numero, nella piazza del Palazzo Reale.

Giorno di festa, dunque. E quale migliore occasione per non lavorare!
Il Re: il popolo non lo amava, non lo stimava, lo dileggiava. Per la sua proverbiale inerzia, i suoi irrequieti sudditi lo avevano ribattezzato: "il re fannullone."
Gli avevano persino dedicato un beffardo sonetto: "Ferdinando sta in panciolle/ Sopra il letto con le molle./ Ha tre pulci sulla pancia/ Una balla, una vola/ L'altra spara la pistola".

*********

Con il popolo che non lo amava, con tutto quello che gli era successo prima e presago, forse, dei guai che da lì a poco gli sarebbero caduti addosso, Re Ferdinando di Borbone, della cui indolenza e pigrizia a Corte tutti sapevano, avrebbe fatto volentieri a meno di lasciare la splendida e confortevole Reggia palermitana e di affrontare un viaggio lungo scomodo e faticoso che lo avrebbe dovuto portare, in quei giorni di maggio del 1806, nel cuore dell'Isola.
Ora, non erano solo i prevedibili disagi che avrebbe dovuto affrontare che lo contrariavano: al Re non andava proprio giù che lo si strappasse, per almeno tre settimane, dai suoi innocenti trastulli diurni e da quegli altri, maliziosi, ai quali - con grande sdegno della Regina - pare si dedicasse piuttosto frequentemente, complice la notte, nelle alcove di giovani e leggiadre dame di Corte o sui giacigli di devote plebee.

Ai suoi intimi ed ai suoi amici fidati soleva dire:
" Che sia un letto od un giaciglio, è tutto bene quel che piglio! ".

Ma a sottrarsi a quel fastidioso impegno, il Sovrano proprio non avrebbe potuto; valli a sentire lagne e mugugni da quel manipolo di arroganti che avevano tessuto le trame di quel viaggio! Tergiversare, procrastinare sine die la partenza, addurre speciose argomentazioni per non allontanarsi dalla Capitale, dire di "no", insomma, sarebbe valso ad alienargli l'amicizia e la devozione dei Trigona (Dio, quanti ce n'erano di Trigona!), e giù una sfilza di nomi che andava ripetendo come una litania: i Santelia, i della Floresta, i della Donna, i Calvaruso, i Crescimanno, gli Starraba, gli Abatellis. E lì la litania finiva, perché, turbato ed irritato com'era alla vigilia di quel superfluo "pellegrinaggio", di alcuni non ricordava né casato né titoli nobiliari.

Di avversari - primo fra tutti quel maledettissimo "Corso corsaro" - se ne era procurati un buon numero in mezza Europa e non era il caso, ora, che se ne facesse di nuovi e, per di più, tra le mura di casa. Che altro gli restava, perciò, da fare se non buon viso a cattivo gioco?
"Sia fatta la volontà del Signore e anche quella dei miei impertinenti nobili sudditi!" esclamò don Ferdinando alzando, rassegnato, lo sguardo al Cielo. E in una mattina di maggio del 1806, lasciò il Palazzo insieme, alla Regina, su di una rilucente carrozza trainata da una triplice pariglia di focosi destrieri coi garretti fasciati dai colori reali e con le criniere al vento.

Venivano, al seguito della vettura dei Sovrani, magnifici "tiri a quattro" sui quali avevano preso posto i Trigona, i Crescimanno, gli Starraba , i Dasaro e tanti altri ancora, tutti lieti e fieri di condurre il Re e la Regina nelle città che avevano dato i natali, in tempi remoti, ai loro nobili e potentissimi avi. Quelle città, meta del viaggio, eran Piazza Armerina e Caltagirone.
Piazza Armerina - una città che, a leggere i libri di Storia, di momenti di fulgore deve averne avuti tanti - ha sempre piacevolmente il fascino della Capitale dell'Isola, verso la quale, periodicamente, si sono rinnovati flussi migratori, non necessariamente di "caste", sì che oggi un numero di piazzesi vive e lavora a Palermo; si sono tutti volentieri lasciati sedurre dall'incantamento che nasce e che si rinnova ogni giorno in questa città bellissima e "felice" distesa tra il mare e il Pellegrino; si sono sentiti partecipi dei travagli dei palermitani ma anche, e di più, delle loro impennate d'orgoglio; ha amato e ama Palermo fino al punto di identificarsi con essa, tanto che un poeta del luogo ha suggellato l'immagine di una Piazza Armerina in crescita con questi versi: "Ciazza non è ciù Ciazza/ ma Palermu a p'cciddazza" .
E di Palermo, della sua cultura architettonica, del suo tendere all'aulico e al possente, a Piazza Armerina vi sono chiari segni, come, ad esempio, nella vigorosa struttura del Duomo, edificato tra il finire del '600 e i primi anni del '700; o nelle armoniose linee architettoniche di palazzo Trigona; o nel frontone maggiore di palazzo Abatellis.
Del giungere e del permanere a Piazza Armerina di Ferdinando di Borbone e della sua Corte, le cronache del tempo sono piuttosto avare e la sola testimonianza scritta sugli eventi di quei lontani giorni ci dà per certo che il Re e la Regina furono ospitati a palazzo Trigona. Sulla visita reale, invece, molti gli aneddoti uno dei quali lo ha riferito, divertito, in un suo libro, lo storico Ignazio Nigrelli, da poco scomparso.
Racconta il Nigrelli che Ferdinando di Borbone, giunto alle porte di Piazza Armerina, fatta fermare la carrozza, chiese ad un contadino quali accoglienze avesse preparato la città per il suo arrivo.
Il poveretto, confuso e intimidito, alzò gli occhi verso il Sovrano e, nel solo linguaggio che conosceva, cioè in quello armerino di derivazione gallico-lombardo, rispose: "P' vostra maestà a Ciazza gh'è u ciang cingh d' fi riau"
Il Re non capì nulla; quel buon uomo aveva soltanto voluto dirgli: "Per vostra maestà, a Piazza c'è un pianoro pieno di fichi di pasta reale".
Palermo "miliardaria", si è detto, per i piazzesi; e non soltanto per quei piazzesi con tanto di blasone e di quattrini; a Palermo vennero, da Piazza Armerina, musicisti e poeti che divennero prestigiosi protagonisti della vita culturale della Capitale.

Da Piazza Armerina, venne il grande musicista Antonio Verso che creò la "Scuola madrigalista siciliana" ; piazzese era il poeta Francesco Gueli che a Palermo, negli anni a mezzo del '600, compose "con tanta leggiadria in lingua toscana che ben può da Apollo meritare il premio dell'alloro" come ebbe a scrivere Giuseppe Galeano nel libro "Le muse siciliane" pubblicato nel 1647.

**********

Re, Regina, nobili, scudieri, uomini in armi, carrozze e cavalli sono ora in marcia verso Caltagirone i cui cittadini, più che far festa "allù Re", se ne stanno tappati in casa. Tutti, tutti amici del "Corso corsaro!".
A Palazzo di città c'è, invece, gran fermento e quando il Corteo è alle viste si elevano gridi di giubilo e di esultanza. L'accoglienza è calorosa che più non si può. Che scorno per i cittadini ingrati e ribelli asserragliatisi nelle loro abitazioni.
Il Primo Magistrato rivolge agli augusti Sposi un caloroso saluto e offre pregevoli doni, opera dell'artigianato locale. Fra i preziosi "cadeaux" vi sono due vistosi "cantari" (vasi da notte) d'eccellente fattura che i Reali guardano ed ammirano.
Perfidi repubblicani! "Quei due "cantari" - diranno - volevano significare un esplicito e pressante invito al Re e alla Regina di lasciare al più presto la città e di tornarsene a casa.

A Caltagirone, il Re Fannullone e l'altera Regina sostarono per soli due giorni: poi, via, verso Palermo. Ah, ingrata città di Caltagirone!
Al Re porgono "cantari" e lo lasciano partire con i segni di un muto rancore.
A chissà dove, il "Corso Corsaro" sogghigna ed esulta.

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Lunedì, 17 Settembre 2012 08:48

Cornici vuote

"Cornici Vuote" sarebbe dovuto venire alla luce (promessa dell'autore) sul finire dell'anno 2000. Aveva detto: "A Natale, brinderemo ad un successo o ad un flop. Ma vi assicuro che brinderemo!" Bugiardo! Un bugiardo: ecco cos'è il nostro autore, il giornalista e scrittore Lillo Marino. Il nostro non ha mantenuto la promessa e, già a marzo del 2001, a chi gli chiede a che punto è "Cornici Vuote" fa ancora orecchio da mercante. Che il reo paghi il suo fio! Come? Pubblicando, in anteprima assoluta, all'insaputa dell'autore, alcuni brani del libro che sarebbe dovuto nascere nel dicembre del 2000, e che, invece, giace chissà dove. C'è di più: vogliamo essere perfidi fino in fondo. Noi sottoponiamo all'attenzione dei visitatori del nostro sito "i brani" che pubblichiamo e chiediamo di esprimere, scrivendoci, un loro giudizio. Insomma, tanti nuovi critici letterari! E così, il nostro pigro autore potrà sapere se il suo libro (ammesso che veda la luce) sarà un flop o un successo.

(…) A Centova, appena fuori Porta, sorge la splendida villa nella quale vivono Giacinto Morelli e la moglie donna Alessandra. Il corpo di fabbrica, costituito dal palazzo che fu dei conti di Acqua Dolce, ha mantenuto sostanzialmente la sua configurazione originaria in tutte le sue elevazioni; lo affianca, formando un tutt'uno armonico, un nuovo corpo di fabbrica arricchito da colonne in marmo di Billiemi. Il primo e secondo piano della zona di ampliamento sono destinati a saloni di rappresentanza che si affacciano sull'antico ingresso del nucleo originario e sul cortile con i loggiati. Una grande piscina coperta è stata realizzata sul lato est del caseggiato. Tutt'attorno piante di ginepro, rosmarino, gelsomino, anemoni, margherite, more e mirtilli. Un largo vialone, delimitato, ai lati, da alte siepi di bosso, collega la strada nazionale alla villa. Questa contrada fuori Porta, Centova, era chiamata, ancora un decennio fa, Monastero; non tanto perchè in quel posto non fosse mai esistito un Convento, ma solo perchè vi sorgeva un cascinale a disposizione degli ospiti, in tutte le ore del giorno e della notte. L'abitava, da chissà quanto tempo, ma certo fin dalla giovane età, certa Rosalina (Lina, per gli amici) la quale si era dedicata con l'anima e col corpo (più con questo che con quella) a indicare alle giovani leve - dai sedici in su - nuove strade, iniziandole, con appassionata dedizione e con somma maestria, al diletto - non più solitario - dei trastulli amorosi.
Insomma, una nave scuola sulla quale potersi imbarcare, ventiquattro ore su ventiquattro, senza soluzione di continuità. Ed era con i proventi di questa benemerita sua attività che donna Lina aveva trovato i mezzi per il suo sostentamento, fino al giorno della sua morte.
Andata a fondo la nave scuola, finite le visite d'apprendimento al casolare del diletto, la contrada cadde nell'oblio. Senza più il via vai rumoroso e divertito dei ragazzi, la campagna si intristiva sempre più: anche gli uomini del contado si intristivano sempre più! Di "Monastero" si perdette il nome. Poi - alcuni anni dopo il triste declino - accadde che un contadino, che transitava per quel posto, scorgesse una gallina che, in men che non si dica, depositò, nel bel mezzo d'un viottolo di campagna, tre uova, uno dopo l'altro. Stupefatto, il bravuomo, si impadronì della gallina e delle uova e si avviò per la sua strada, senza lasciarsi sfuggire l'occasione di informare, quanti incontrava, del prodigio cui era stato spettatore. La notizia dello straordinario avvenimento si diffuse in tutta la contrada; del numero delle uova, depositate dalla gallina prodigio, si andava via via perdendo il conto. E, quando la buona novella giunse in città, le uova avevano raggiunto quota cento. Fu così che la contrada, un tempo nota come "Monastero", prese il nome di "Centova". (…)

(…) Fa salotto la marchesa, mentre in Consiglio comunale si discute sul contenuto della delibera della quale lei si ritiene ispiratrice e madrina. E' impaziente e timorosa, anche se è certa di avere dalla sua parte qualche consigliere dell'opposizione. Ma che fine farebbe la delibera, se, poi, vi fosse qualche ripensamento o una repentina crisi di coscienza? L'ammonimento di San Matteo "Nemo potest duobus dominis servire" è pur sempre un impegno morale per tutti: anche per i suoi momentanei alleati! Meglio non pensarci. Alessandra freme, nell'attesa del messaggio liberatorio, ma agli ospiti, impassibile, elargisce ampi sorrisi e calorosi gesti di cortesia. E di gradimento. Nessuno si è sottratto all'invito di prendere parte a quell'incontro, fra amici, voluto dal sindaco e dalla marchesa. C'è l'Eccellentissimo Vescovo della Diocesi, Fortunato Ernesto Castorina, in odore di porpora cardinalizia. Lo accompagna il fedelissimo segretario, don Vincenzo Di Leo, in un attillato clergyman con giacca e pantaloni grigioscuri, con pettorina nera e collare bianco. E' un bel giovane, con fattezze di atleta e con un volto decisamente da copertina. Insomma uno "schianto", come è di moda dire. C'è donna Elda Calvaruso, accompagnata dal marito, medico della Mutua, e dalle due figliole, gemelle diciottenni, non particolarmente belle e, anzi, piuttosto scipite.
Fra gli invitati, si aggira, come un falco in cerca della preda, l'imprevedibile e bizzarro Giangiorgio Licata che, da recente, ha perso, in un incidente d'auto, la giovane moglie, Annette Gutreraux, una cittadina francese che aveva conosciuto a Bordeaux dove aveva celebrato le nozze che, si diceva, erano state sontuose.
Aveva amato Annette di un amore profondo ed era stato ricambiato con la stessa intensità e passione; ma sull'amore, alla fine, era prevalsa la bizzarria di Giangiorgio che, sulla lastra di marmo che copriva la bara della moglie, aveva fatto incidere, in francese naturalmente, l'epigrafe et pour le mie: "Ci-git ma femme: oh qu'elle est bien, per son repos et pour le mien" (Qui giace mia moglie: oh! come sta bene qui per il riposo suo e per il mio). C'è, ancora, il sempre verde barone Ganci,proprietario della testata del quotidiano locale, che osserva, ascolta, indaga: deformazione professionale! E' un patito della cucina mediterranea che esalta appena ne ha l'occasione; si capisce il perchè del suo fisico ancora asciutto e scattante.Ha gli occhi azzurri, feroci e spietati come un vecchio lupo di mare ed, invece, è un uomo disponibile, generoso ed aperto alle amicizie. Compiaciuta, la marchesa si aggira per gli ampi saloni ma attende che il telefono squilli : la delibera, oddio, la delibera! Quando torna a far scorrere lo sguardo sui presenti, ha un improvviso sussulto e un leggero rossore le imporpora con discrezione il viso: ha scorto, solitario, tra la folla, un giovanotto che l'affascina e l'attira. Non deve avere più di vent'anni. Incede verso di lei. Com'è alto! I suoi capelli biondo cenere splendono, alla luce delle lampade, come fari. Ha occhi freddi come quelli di un felino,luminosi come quelli d'un falco,del colore del miele. Ha un fisico forte e possente.
Non lo ha mai visto prima. "Chi è?" si chiede la marchesa. Ha la risposta da lì a poco: il ragazzo le si fa incontro. E' davanti a lei in tutto il suo splendore. La marchesa gli porge, tremante, la mano quasi cercasse il tiepido contatto delle labbra dell'ancora ignoto ospite.
"Sono il marchese Marco Consalvo di San Felice. Lieto di conoscerla, madame, e di avere la fortuna di essere ospite in questa sua splendida villa!".
"Madame" è colta da un fremito che non sa dissimulare. Un identico fremito scuote il ragazzo che osserva, ammirato, le forme flessuose della donna e il rigoglioso seno che si offre ai suoi occhi. Con la fantasia, che va a briglie sciolte, l'una ha già spogliato l'altro.Sono nudi, lì, davanti a tutti.
"Venga, mio giovane amico: le mostrerò la villa!". Gli afferra la mano e lo trascina via dalla grande sala e dagli ospiti. I suoi occhi sono persi in un mare di passione.
"Ora! Subito. E al diavolo,tutti!". "E se tuo marito venisse a saperlo?" – chiede, più tardi, Marco, turbato e felice. "Oh, lo saprà! Lo saprà!" -ribatte lei, atteggiando le labbra in un sorriso malizioso e di sfida- "Lui ha le sue puttanelle. Io ho il mio bel boy-friend!". Si ricompongono senza alcuna fretta, e mano nella mano, tornano fra gli ospiti. Per quel giorno, la visita alla villa è finita. Ma non sarà l'ultima.
"Cos'è guardarti!" sussurra donna Alessandra al suo giovane amante, steso sul grande letto matrimoniale in tutta la sua sensualità prorompente. E' nudo, esposto allo sguardo voglioso di lei.Alessandra, a seno scoperto, con le gambe avvolte nel bianco lenzuolo di lino, che non cela ma evidenzia l'elegante immagine delle cosce ben tornite, freme di desiderio. Giace appoggiata su un fianco e sorregge il capo con la mano sinistra chiusa a coppa sul viso.L'altra mano, vogliosa e ardita, scorrere lentamente sul corpo del ragazzo ormai nel vortice dell'estasi, del desiderio, dell'eccitazione.
"Cos'è toccarti ! Cos'è toccarti!". Le parole sgorgano impetuose e provocatorie dalle labbra di Alessandra sempre più vicine, sempre più vicine a ciò che le offre, prepotentemente, il giovane amante. Alessandra non sa, e non vuole, frenare la sua sconvolgente bramosia e si china, con irrefrenabile, selvaggio furore, sul giovane corpo ignudo e fremente di Marco. "Non così! Non così!" invoca, delirante, Marco. Alessandra gli attanaglia le cosce e continua. E' così che deve andare. E' così che va ! Se solo sapesse - riflette Marco - che sono alle mie prime esperienze! Il ragazzo è impacciato, intimidito. Confuso; ma è anche ancora eccitato.
"E' stato bello!" esclama, come se si fosse all'improvviso svegliato da un sogno impossibile; teneramente attira a se Alessandra e posa le sue labbra su quelle di lei. E' Marco, ora, a condurre il gioco ed a trascinare, nel vortice del piacere, la donna sul cui corpo vellutato lascia scorrere la sua lingua vogliosa e sempre più audace. Eccoli, a passione sopita, distesi, ancora ebbri di piacere, mano nella mano. Si tengono vicinissimi, le teste appoggiate l'una all'altra. I loro sguardi sono persi in immagini di incanto,come se attorno a loro non ci fossero più pareti,come se il soffitto fosse sparito: bianche nuvole che si inseguono nel cielo,come in un gioco di bambini, prati cosparsi di fiori, le acque di un fiume che risplendono al sole.
Si è fatto scuro quando finalmente decidono di rivestirsi. Alessandra avvolge il corpo nudo in una vestaglia color fuxia stampata a fiorellini multicolori. Marco raccoglie i suoi indumenti, sparsi sul lucido parquet, e li indossa lentamente, forse controvoglia. Alessandra si stringe a lui e lo tiene abbracciato come se temesse che qualcuno potesse portarglielo via. Non aveva mai provato emozioni così intense: un misto di meraviglia e di riconoscenza che le aveva fatto scoprire un mondo di cui non aveva mai sospettato l'esistenza. "Su,devi andar via" lo esorta a bassa voce. "Grazie" mormora Marco, mentre le prende la testa fra le mani e l'attira dolcemente contro la spalla. Vuole assaporare quell'esperienza fino all'ultimo attimo.
Sull'uscio, Alessandra avvicina la mano sul volto del ragazzo e si abbandona in una lunga carezza, con mani gentili, sicure, affettuosamente possessive. E' colta da un fremito di piacere nel ricordo della voce di Marco che descriveva il suo corpo,facendola sentire orgogliosa di possederlo. Quando Marco se ne va, e percorre il breve tratto di viottolo che lo separa dall'auto, Alessandra lo accompagna con gli occhi scintillanti, ancora sconvolta dal tumulto erotico non sopito e prova una fitta di selvaggio desiderio. (…)

(…) Il dottor Morelli sta seduto dietro la scrivania a lavorare con apparente calma, dettando delle annotazioni al registratore che gli consente di ridurre quei contatti umani che, da qualche tempo, gli risultano sempre più disgustosi, quasi nauseanti. Ha persino preteso che lui e Alessandra dormissero in camere separate, adducendo a giustificazione, di avere il sonno così leggero da non poter dividere il letto e la camera con un'altra persona. Alessandra non aveva fatto una piega a quella decisione inattesa del marito. Giacinto Morelli ricordava perfettamente ogni particolare di quel breve colloquio con Alessandra. Aveva lavato il rasoio e aperto i rubinetti della doccia. Era entrato nel box, si era insaponato ed aveva aperto al massimo l'acqua fredda. L'aveva richiusa ed aveva preso l'asciugamano; poi, continuando a massaggiarsi, si era avvicinato al letto sul quale, tra le lenzuola, era distesa Alessandra, ancora insonnolita.
"Eri irrequieta questa notte. Io non ho chiuso occhio" le aveva detto con voce stanca.
"Oh, caro!"
"Se provassimo a dormire in camere separate?"
"Certo, caro!"
"Nulla in contrario?"
"No, caro!"
"Vuoi occuparti tu della nuova sistemazione?"
"Si, caro!"
Morselli sorride soddisfatto e riprende a lavorare con quell'aggeggio che raccoglie le sue parole.

L'ufficio è azzurro ghiaccio, l'aria condizionata è fresca, l'arredamento dona una sensazione di eternità e di solidità, associate a una grazia sottile e a un'eleganza raffinatissima. Le persiane e le travi sono di autentico legno di manzonia e le finestre sono tutte piombate a mano. Giacinto è assorto nei suoi giochi di prestigio di cifre, risultati, stime e programmi; la sua voce, ferma ed alta, copre anche il debole ronzio del registratore. Sotto, sotto prova un senso di inquietudine. E' in attesa di qualcuno o di qualcosa che deve accadere e il segno esteriore della sua agitazione è il movimento delle dita della mano destra che scorrono avanti e indietro sulla coscia mentre lavora: un gesto carezzevole e narcisista. Quando il telefono riservato squilla, il movimento delle dita si interrompe: lascia che l'apparecchio continui a squillare, poi spegne il registratore e solleva il microfono.

"Sono Morelli. E' lei,dott. Lo Nero?



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