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Piazza Armerina

Tradizioni Popolari

Ggh'éra 'na vöta a Zzazza Vegghia

Dopo aver faticato nell'antico tracciato della mulattiera della collina di Piazza Vecchia ed essersi riposati più volte lungo il "viaggio", si giungeva in vista dell'eremo e del cosiddetto castello del Conte Ruggero. Per noi, ragazzi di oltre 40 anni fa, la fatica era facilitata dall'età, ma era complicata dal fatto che si doveva evitare continuamente l'ira dei proprietari delle campagne circostanti poiché venivano razziate regolarmente di tutte le cose buone che la primavera produce dalle nostre parti. Non c'era campo di fave o di piselli che non subiva l'onore di una nostra visita, non c'era un mandorleto che non ci facesse riempire le tasche di quelle piccole, acerbe, ma deliziose "m'nnulicchi" che si consumavano ovviamente con tutta la tenera buccia.
Per non parlare dei lillà, infiorescenze di un arbusto a cui i piazzesi (che chiamano "pacenzia") sono molto affezionati perché ricordano loro proprio la "presa" della Madonna di "Zzazza Vecchia" dell'ultima domenica d'aprile. I lillà si procuravano in ogni dove, pur di portarne a casa il delizioso profumo.

La Madonna, un'icona dipinta da pittore piazzese Giuseppe Paladino ad immagine di quell'altra icona bizantina di Maria SS. delle Vittorie, vessillo normanno dei campi di battaglia che è custodita nella Cattedrale, resta un intero anno nell'eremo di Piazza Vecchia a ricordo, come si sa, di quella leggendaria storia che la volle ritrovata miracolosamente dal canonico Candilia (che abitava in un piccolo eremo della contrada omonima al piano Cannata) e poi portata in solenne processione il 3 maggio del 1348, anno della grande peste che af-flisse non solo la città di Piazza, ma tutta l'Europa del tempo.La tradizione della primavera piazzese non si è mai interrotta e anzi il giorno del ritorno della sacra tela alla chiesetta di Piazza Vecchia, il 3 di maggio appunto, viene ancor più festeggiata perché la gente sfrutta la sacra devozione per vivere un'allegra kermesse campagnola davvero singolare.

Oggi la mulattiera di allora è divenuta una via carrozzabile e si è pure stemperata l'antica atmosfera della sagra popolare, ma un tempo non molto remoto la gente, dopo aver "consegnato il viaggio" lassù all'eremo, si cercava un posto all'aperto, per-lopiù nella parte bassa del colle, nei pressi della chiesetta dell'Indirizzo, e rimaneva tutto il giorno a gozzovigliare e far baldoria fin oltre il tramonto del sole quando l'assalto ad un al-bero della cuccagna (la cosiddetta "gioia") concludeva la festa. C'era un gran consumo di carciofi arrostiti, "frosgie" (frittate) di ricotta e di asparagi, salsiccia e carni varie, lattughe fresche, "calia" e poi… vino rosso fino ad inverosimili sbornie epocali. Per noi ragazzini era occasione di iniziazioni al corteggiamento, di "luzziare", che altro non era che un sistema di comunicazione non verbale fatto di sguardi e ammiccamenti alle ragazzine che oggi ormai sono mamme e anche nonne.

Da qualche decennio l'amministrazione comunale ha cercato di riprendere la tradizione riproponendo anche la cosiddetta "gioia", ed oggi l'iniziativa, per nuova affezione popolare è riapparsa collegata alla tradizione. Tuttavia, non andrebbe abbandonata, se è vero come è vero, che questo paese che abbiamo l'orgoglio di chiamare città, soffre di una fastidiosa quanto sterile sindrome logorroica, di quella malattia cioè che ci induce a chiacchierare mol-to e operare poco, salvo poi a riempirci di fumosità dormendo sulle glorie del passato.
Questo da sempre e in ogni cosa, ma, se la memoria conta un poco nel processo culturale cittadino, bisogna che lo si dimostri.

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