

Creato da Federico II nel XII secolo per combattere sette considerate eretiche come i valdesi, i paterini e i circoncisi, il Tribunale dell'Inquisizione in Sicilia iniziò a far sentire la sua tragica presenza a partire dal 1487: da questa data in poi, infatti, il famoso Torquemada inviò nell'Isola inquisitori dalla Spagna e rese il Tribunale una vera e propria istituzione la cui sede ufficiale divenne Palazzo Chiaramonte a Palermo. Così l'Inquisizione divenne presto per i re spagnoli uno degli strumenti più efficaci per tenere in soggezione l'intera Isola grazie anche alla nobiltà siciliana che, contando numerosi suoi membri tra i funzionari laici del Tribunale, collaborava attivamente, in cambio di numerosi privilegi, a preservare l'ortodossia politica e religiosa.
L’INQUISIZIONE fu introdotta nell’Isola prima del 1224 dall’imperatore Federico II, il quale, con la costituzione "Inconsutilem tunicam" emanata a Palermo, ordinò che tutti gli eretici e gli Ebrei dovessero pagare una tassa a suffragio degli inquisitori di fede preposti al loro controllo. L’istituzione ufficiale del Tribunale dell’Inquisizione in Sicilia fu deliberata nel 1487 con Ferdinando II il Cattolico, il quale originariamente delegò a giudici i Padri Domenicani. Il 20 gennaio 1513 il compito fu affidato ai religiosi Regolari, che si insediarono nella nuova e definitiva sede del famoso palazzo dello Steri, noto pure con l’appellativo di "regium hospicium", che fu la dimora privata di Manfredi Chiaramonte.
L’Inquisizione, "invadendo progressivamente l’intero organismo costituzionale dello Stato, si mostrò arma utilissima dell’assolutismo spagnolo".
La Sicilia, rispetto alle altre parti del mondo, non fa eccezione; ha soltanto una varietà infinita di autorità che hanno il potere di infliggere incondizionatamente pene: la giustizia vicereale, quella dei tanti fori privilegiati tra i quali spicca per ferocia quello dell’Inquisizione, nonché le corti di giustizia feudali dei baroni. Persino i governatori del Monte di Pietà di Palermo sono autorizzati a punire i reati contro il Monte "con pubbliche et esemplare pene, o privatione, tratti di corda o frusta et alli nobili pene pecuniarie ad essi governatori benviste".
Ognuna di queste giustizie esercita, senza eccessive formalità, processi più o meno regolari e infligge pene. I controlli non esistono o quasi; i ricorsi ai gradi superiori sono possibili soltanto a soggetti che dispongono di denaro con cui pagare l’assistenza di un buon giureconsulto. Tutti gli altri subiscono le decisioni giudiziarie che non raramente sono poco più che soprusi e violenze, legalizzate da una parvenza di giustizia e da consuetudini regolari.
Ma, ancor prima di dare inizio ad una serie di disumane torture, per estorcere delle false confessioni che legalizzassero la condanna, si procedeva all’ultimo interrogatorio dell’imputato, quello che veniva chiamato " l’interrogatorio sulla selletta ". La sgabello di legno che veniva posto al centro dell’aula selletta era semplicemente uno e sul quale sedeva l’imputato. Si pensava che, solo, davanti ai giudici in toga, ormai informati in modo completo su tutti gli atti del processo, egli sarebbe rimasto impressionato ed avrebbe senz’altro rivelato tutto ciò che aveva potuto dissimulare nel corso del dibattimento. E’ ovvio che il grande inquisitore tempestava di domande l’imputato e cercava di confonderlo, mettendo in rilievo le sue eventuali contraddizioni e le testimonianze che erano contrarie alle sue affermazioni, e, privo dell’aiuto di un avvocato, era particolarmente vulnerabile, e come tale vittima già destinata al rogo.
La tortura è un imprescindibile meccanismo procedurale; in una logica per noi oggi incomprensibile, ma valida fino al Settecento ed oltre, "la confessione stragiudiziale, la quale purtroppo, allora, prendeva la forma di confessione sotto la tortura". Tratti di corda, frustate e anni di remo nelle galere vengono inflitti anche per delle semplici contravvenzioni. I capitoli della città di Palermo ordinano che "siano in pena della frusta, e di quattro tratti di corda" coloro che faranno cattivo uso delle acque comunali per cui hanno ottenuto la concessione; che i cassieri della "Tavola di Palermo" (una banca pubblica istituita nel 1552-53) che non registrino subito le somme incassate "siano in pena la prima volta di pagar di proprio, la somma ritenuta, e di perdere il salario di un anno; e la seconda volta d’anni tre di galea"; che chi rompe i fanali dell’illuminazione cittadina (siamo nel 1748) subisca la "pena della suddetta frusta con venti cazzottate, e di anno uno di carcere"; che chi "abbia avuto l’ardimento di far mancare, o seccare, scorticare, e recidere gli alberi" piantati nelle strade fuori porta, subisca "la pena di onze ducento se saranno nobili, e di quattro tratti di corda ed anno uno di carcere se saranno ignobili".
Nel caso di un nobile insolvente, in Sicilia, Ministri Delegati e Procuratori dei creditori, nominati di volta in volta, facevano stimarne i beni più adatti alla vendita, ne pubblicavano il prezzo ed erano autorizzati a venderli, come se tale vendita procedesse dalla potestà sovrana del Re. All’acquirente consegnavano copia del contratto munito di "Verbo Regio", che toglieva al nobile il possesso ed ogni possibilità di rivendicazione, inoltre gli davano lo "Scudo di Perpetua Salvaguardia" contro pretesi diritti di altri.
Non ci sono limiti, invece, alle pene comminate per reati maggiori. Il viceré de Vega costumava, anche per lievi colpe, "di dare la tortura anche a’ nobili, e […] spesse volte li facea battere con lo staffile. Per delitti di menoma conseguenza non esitava punto di fare inchiodare una mano al reo, a’ bestemmiatori poi faceva delle volte forare la lingua, e spesso tagliare".