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Piazza Armerina

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Nonostante che la struttura sintattica sia sovrapponibile a quella del dialetto siciliano tuttavia, dal punto di vista linguistico-lessicale, l'idioma gallo-italico (o lombardo-siculo che dir si voglia) presenta un incredibile apporto di vocaboli e di fonemi talvolta intraducibili poiché porta con sé influssi greci, latini, arabi, lombardi, provenzali, catalani, etc.

A Piazza Armerina, ormai da tempo, uno stuolo di volenterosi poeti ha continuato una tradizione letteraria che persegue lo scopo non dichiarato di non far estinguere questo affascinante idioma o quantomeno di continuare a lasciarne l'eredità alle future generazioni. Così, attraverso le opere di poeti piazzesi e sperando che ancora la parlata dei quartieri popolari venga gelosamente protetta, riusciamo a seguire il cammino della continuità di questo seducente linguaggio.

Già nel 1872 Remigio Roccella scriveva il suo primo libro "Poesia piazzese" e tre anni dopo pubblicava il "Vocabolario della lingua parlata in Piazza Armerina" che, contenendo elementi di grammatica e di fonetica, è stato un punto di riferimento preciso e necessario a quanti dopo di lui si sono occupati di questo linguaggio. Nel 1877 pubblicava una seconda edizione (“Poesie e prose nella lingua parlata piazzese” arricchita di nuove poesie, racconti popolari, una gran quantità di proverbi e una commedia in tre atti (Scuta a to pa'). A Remigio Roccella, poeta satirico e moraleggiante, spesso con autentici slanci lirici, va la gratitudine dei suoi posteri concittadini ai quali è consentito di gioire di deliziosi quadretti idilliaci e, invero, i poeti dialettali che lo hanno seguito lo considerano un po’ il padre della parlata lombarda dato che sono andate perdute le tracce di ogni precedente produzione letteraria in questa lingua.

Nel secolo scorso un poeta dialettale, molto amato e continuamente citato, è stato Carmelo Scibona che, pubblicando nel 1935 un volume da lui stesso definito di poesie "satirico-umoristiche (U’ cardubu = il calabrone), arricchì il patrimonio poetico della città facendo rivivere fino ai giorni nostri tutte le espressioni tradizionali più popolari e incisive. Egli, abilissimo artigiano del legno, amava scrivere con il lapis i suoi versi estemporanei direttamente sulle tavole da lavoro e, appena finiva di declamarli, con un colpo di pialla li riduceva in trucioli. Chi stava a sentirlo puntualmente trascriveva i frizzanti versi e li divulgava. La sua opera “U’ cardubu” è stata pubblicata nel 1997 con il titolo originario “I mì f’ssarì” in una ponderosa edizione critica, filologicamente sicura e ortograficamente coerente, arricchita di tutti i componimenti inediti del poeta finora ritrovati, a cura di Salvatore C. Trovato nell’ambito del “Progetto galloitalici”.

La tradizione in gallo-italico continuava ancora con Gaetano Marino Albanese “Ciucciuledda”, coevo di Scibona, di cui purtroppo possediamo soltanto una raccolta postuma pubblicata nel 1982 dal figlio Liborio col titolo: “Ricordando mio padre”.

Per chi pensasse che il vernacolo piazzese si presti solo a fare satira di costume, viene a smentirlo il malinconico poeta Giuseppe Ciancio che, con la sua pubblicazione del 1971 "Faiddi", ci regala una raccolta delicatissima e tenera, frutto della pacata meditazione sull'umana condizione. Nel 1997 gli fu dedicata una strada nella contrada Scarante.

Un poeta dialettale piazzese "verace" è attualmente Pino Testa che vive con la città un rapporto viscerale. Egli infatti è cantore popolare, a volte oleografico e celebrativo, altre volte satirico e mordace, ma sempre nostalgico del "tempo che fu". Autentico conoscitore del linguaggio dei padri, come Scibona e Albanese, è autodidatta e poeta istintivo e satirico. I suoi versi sono quadretti di vita paesana e pennellate d’autore. Testa non ha pubblicato volumi di versi, ma la sua poesia si conosce per frequente declamazione pubblica, tuttavia custodisce un enorme patrimonio inedito (“P’nz’ddiàdi”) di cui vedremmo volentieri la pubblicazione.

La memoria sociale, frutto del cuore e della ragione, ha certamente bisogno di essere coltivata e poi affidata alla custodia dei posteri. Tutto questo lo ha fatto, con grande passione e devozione quell'eclettico artista che è stato Gioacchino Fonti, scomparso nel 1994. Egli ha plasmato l'argilla, ha prodotto olii e chine pregevoli ritraendo luoghi e uomini della sua città,ma soprattutto è stato divulgatore di cultura e testimone di un'epoca. Così cavalcò il linguaggio degli antenati e sognò di insegnarlo alle giovani generazioni anche come materia scolastica. Tradusse nell'idioma gallo-italico vocaboli moderni pubblicando una grammatica in cui propose un’interessante guida alla formazione dei vocaboli nuovi. Pubblicò vari testi poetici tra cui "U’ sbrims paisang” (Il brindisi paesano). Come gli alchimisti di un tempo remoto Ino Fonti distillava i ricordi e faceva risorgere situazioni e personaggi caratteristici di un'epoca più innocente e sicuramente più a misura d'uomo rispetto a quella attuale. Ne veniva fuori una creazione poetica che, usando l'obbligatorio idioma gallo-italico "ciaccès", assomiglia a una vernice pittorica, a una vetrina che osserviamo con simpatia, con rabbia, con emozione. Un prisma che riflette sfaccettata una fetta del recente passato.

Proponiamo questo articolo sull’immagine della Madonna delle Vittorie, patrona della città. Respirando a breve un clima clima di festeggiamenti ci sembrava giusto iniziare un breve cammino che ripercorrerà le vicende di questa icona che è stata, ed è, un punto cardine dell’identità storica, culturale e religiosa del cittadino armerino.

Un’immagine tra storia e leggenda
Non staremo qui a scrivere la storia della nostra città, ma ci limiteremo ad accennare brevemente i fatti che vedono la Patrona protagonista. Come vuole la nostra tradizione culturale, nell’anno 1060 durante la dominazione araba in Sicilia, il papa Niccolò II° donò a Ruggero d’Altavilla il Normanno, un vessillo di tela raffigurante l'effigie di Maria col Bambino come drappo che avrebbe aiutato le milizie normanne nelle battaglie contro i saraceni. E così fu. Il vessillo di guerra, rappresentò il signum victoriae che portò di vittoria in vittoria Ruggero alla conquista dell’Isola.
Forte del fatto che la spedizione in Sicilia fu vista come una guerra santa di liberazione religiosa e che sicuramente la protezione della Madonna fu determinante nella battaglia per liberare la città di Plutia (oggi Piazza Armerina), strenuamente difesa dagli arabi, il Conte Normanno donò alla città, cui era legato da un vincolo d'alleanza, l’immagine ricevuta dal Papa che presto venne ritenuta miracolosa e fatta oggetto di culto popolare dai plutiesi che la custodivano. Durante il regno di Guglielmo I il Malo (1161), il vessillo fu sotterrato dentro ad una cassetta per sottrarlo alla furia distruttrice dei soldati che stavano mettendo a ferro e a fuoco la città che si era ribellata al re. Per molto tempo non si seppe più nulla del sacro vessillo, finché il 3 maggio del 1348, la Madonna si manifestò ad un sacerdote del luogo, tale Giovanni Candilia, e gli indicò il luogo esatto in cui era sepolta la cassetta; la ritrovata immagine della Madonna, inneggiata dai fedeli che chiedevano la fine della pestilenza che in quel periodo stava decimando la popolazione, diede subito prova della sua benevolenza compiendo il miracolo e mettendo fine al terribile flagello. All'interno della cassetta fu pure ritrovato un capello che si disse essere della Madonna ed è oggi ben custodito in una teca d'argento. In onore di Maria Santissima delle Vittorie fu costruito un Santuario nel luogo in cui venne ritrovata la cassetta, in località Piazza Vecchia, che è meta di pellegrinaggio e sede di una festa popolare che si celebra l’ultima domenica di aprile e il 3 di maggio e consiste nel portare in processione una copia dell'immagine della Madonna fino al Santuario. Quanto riportato è ovviamente il frutto non solo di ricerche storiche, ma anche di leggende sull’icona nate secoli fa per rafforzare il culto e la devozione dei piazzesi nei confronti della Vergine.


Vessillo o dipinto? Il mistero dell’icona
Come accennato sopra la leggenda vuole che il papa Nicolò II° abbia donato al Conte Ruggero l’immagine della Vergine. Da anni però studiosi ed esperti del settore cercano di risolvere un piccolo mistero che incombe proprio sul dipinto. Nei libri su Piazza Armerina che riportano la storia semileggendaria, si parla di un vessillo, di un drappo. Gli scritti dello storico armerino Chiarandà, che ci riportano al ritrovamento dell’immagine per mano del Candilia, parlano di un labaro cioè un quadro, di una tela in stile bizantino addirittura dipinta da S. Luca Evangelista, che sarebbe quella esposta oggi nella nostra Basilica Cattedrale. E il vessillo? Si può ben notare come ci sia una differenza tra le due cose. A quanto pare nell’incontro tra Ruggero e Nicolò II° qualcosa fu consegnata, ma qui le tesi sono discordanti: una parte sostiene che il pontefice abbia consegnato il labaro vero e proprio e che il dipinto sia arrivato direttamente da Roma per mano di Ruggero.

Questa immagine (tratta da un’antica litografia) mostra il Conte Ruggero che sorregge il dipinto di Maria SS. Delle Vittorie, dopo l’ingresso nell’antica Plutia. Come si può ben notare, la figura della Madonna non è dipinta su un drappo.

Un’altra parte di esperti in materia sostiene invece il contrario: Nicolò II° avrebbe sì donato un vessillo a Ruggero, ma non sarebbe quello raffigurante la Madonna col Bambino. Secondo tale tesi il vessillo sarebbe stato una bandiera con lo stemma papale e che l’icona della Madonna si sarebbe trovata già in Sicilia prima dell’arrivo dei normanni, e sarebbe opera, non di S. Luca, ma di anonimo artista della comunità bizantina molto numerosa in Sicilia. La liberazione dall’oppressione araba, concepita come una piccola guerra santa, e la nascita delle leggende avrebbero così “unito” le due cose (vessillo papale e icona) in un'unica immagine, creando quindi l’oggetto di un culto e di una devozione ancora oggi molto forti. Per altri ancora il quadro sarebbe stato una parte di un precedente bottino di guerra del Normanno e che egli stesso avrebbe portato in Sicilia. Le teorie sono tante ma nessuna ha avuto riscontro certo. Un detto dice “dove finisce la storia, comincia le leggenda”. Quale è la verità? Non lo sappiamo, né ci interessa scoprirlo, visto che nel cuore di ogni cittadino armerino l’immagine di Maria SS. Delle Vittorie rappresenta qualcosa di più profondo e significativo di una semplice immagine sacra.

Domenica, 12 Agosto 2012 15:00

Il Ratto di Kore

Kore, figlia di Demetra e di Zeus, era la vergine dea che simboleggiava il grano verde (essa veniva chiamata Persefone quando simboleggiava il grano maturo, mentre quando simboleggiava il grano raccolto era denominata Ecate). Questi tre nomi comunque ricordano la sua stessa madre Demetra poiché la sua figura ricorda il campo arato tre volte connesso al rito della fertilità.
Ade (Plutone), dio degli Inferi, si innamorò di Persefone (la Proserpina dei Romani) e chiese a Zeus il permesso di sposarla. Questi, per paura che Demetra non avrebbe mai perdonato che la figlia fosse confinata nel Tartaro, non rispose né sì né no, ma Ade si sentì autorizzato a rapire la divina fanciulla.

Così, mentre Persefone coglieva fiori nei prati adiacenti il lago di Pergusa insieme con le sue amiche ninfe (tra cui Ciane che per le lacrime versate si trasformò in fiume sotterraneo ed andò a riaffiorare a Siracusa), fu rapita da Ade e condotta con lui nel Tartaro, il regno sotterraneo dei morti.
Demetra cercò Kore per nove giorni e nove notti, senza mangiare né bere e invocando disperatamente il suo nome. Il decimo giorno giunse a Eleusi dove le venne raccontata la visione di un carro misterioso trainato da cavalli neri che era comparso e poi scomparso in una voragine e il cui invisibile guidatore teneva saldamente avvinta una fanciulla urlante. Avuta la prova dell'ignobile rapimento con la probabile complicità di Giove, Demetra, piuttosto che salire all'Olimpo per incontrare il padre degli dei, si mise a vagare furibonda sulla terra, impedendo alla natura di rifiorire e produrre frutti, tanto che l'umanità stessa minacciava di perire. Zeus non osava recarsi da Demetra ad Eleusi, ma le inviò messaggi e doni prontamente rifiutati dalla dea che, anzi, giurò che la terra sarebbe rimasta sterile finché non le fosse restituita l'adorata figlia. Zeus affidò ad Ermes un messaggio per Ade: "Se non restituisci Kore, andremo tutti in rovina". Un altro messaggio inviò a Demetra: "Avrai tua figlia Persefone, purché non abbia assaggiato il cibo dei morti". Poiché Kore aveva rifiutato di mangiare fin dal suo rapimento, Ade fu costretto a promettere la sua liberazione e salire sul carro. Ad Eleusi Demetra era pronta ad abbracciare la figlia, ma saputo che Persefone era stata accusata di aver assaggiato sette chicchi di melograno nel regno dei morti, ricadde nella disperazione e minacciò di maledire ancora la terra.
Zeus, con i buoni uffici di Rea (madre sua e pure di Demetra nonché di Ade), creò un compromesso: Persefone avrebbe trascorso ogni anno tre mesi in compagnia di Ade, come regina del Tartaro, e gli altri nove mesi con sua madre. Così Demetra risalì all'Olimpo non prima di aver ricompensato chi l'aveva aiutata nella ricerca: a Trittolemo diede semi di grano, un aratro di legno, un cocchio, e lo mandò per il mondo ad insegnare l'agricoltura agli uomini.
Persefone simboleggia l'alternanza delle stagioni e rappresenta la parabola "se il grano non muore non cresceranno le messi". Nei misteri eleusini rappresentava il candidato all'iniziazione che passa attraverso la morte per rinascere e accedere alla conoscenza.

COME VISITARE IL SITO
Ancora adesso sul sito archeologico di Cozzo Matrice, una collina a nord del lago di Pergusa, è visibile e visitabile la caverna collegata al ratto di Kore. Imboccata la regia trazzera al km 8 della strada che da Piazza Armerina porta a Enna, ci si inerpica per erti sentieri fino alla cima del colle. Lungo i pendii si incontrano insediamenti preistorici con numerosi ambienti scavati nella roccia calcarea.
Una visione panoramica di grande emozione si presenta, specie in Primavera, sul pianoro verde e fiorito, antistante l'ultimo tratto: giù a meridione il lago di Pergusa con la rotonda conca azzurrina; a levante si estendono a perdita d'occhio la valle del Dittaino, regno cerealicolo di Demetra, e la piana di Catania fino all'estremo turchino orizzonte ove campeggia l'Etna, fucina di Efesto.
La cima del colle si presenta come un massiccio roccioso su cui, accanto ad un ambiente rituale scavato nella pietra, sono visibili i resti di una officina della Tarda Età del Rame: parecchie buche nella roccia per i pali delle capanne e tracce di alcuni focolai. Di fronte, aperta verso settentrione si apre la grande caverna legata al mitico ratto di Kore. Facendo il giro della collina si scopre un'altra grotta e poi uno scavo eseguito dalla Soprintendenza di Enna, che ha messo in evidenza un piccolo villaggio rupestre.
Scendendo a sud-ovest per guadagnare il ritorno si incontrano, lungo il costone scosceso, altri scavi: ancora ambienti abitativi e una piccola necropoli. Le tombe, in particolare, sono a camera e scavate nella roccia con all'interno la banchina per la deposizione del defunto e il tetto a doppio spiovente. Il luogo è di grande suggestione per l'immaginario mitico e per la memoria antica.

Domenica, 12 Agosto 2012 14:59

Il tesoro di Monte Naone

C’era una volta nel centro della Sicilia il regno felice di Monte Naone. Il suo re si chiamava Jovàno e la regina Sara. Il castello sulla cima del monte dominava le vallate d’intorno e le pianure. Al servizio del re vi era pure un sapiente di nome Turoldo che alcuni indicavano come mago e altri come santo, tanto era votato al bene. Passava la gran parte del suo tempo in una torre del castello dove conduceva studi ed esperimenti. In quel regno viveva nascosta una strega molto malvagia di nome Brigida e una volta riuscì a prendere così bene l’aspetto della regina Sara che neppure il Re riuscì ad accorgersi della sostituzione e, quando la Regina stava per partorire, fece il suo sortilegio. Nacque Rubelia per la gioia del Re e dei suoi sudditi, ma l’evento fu funestato dalla morte della Regina stessa a causa del parto. La piccola principessa cresceva così leggiadra che ogni cosa spiacevole si annullava di fronte alla sua grazia.

La sua bellezza eguagliava quella di un giorno di maggio: l'azzurro dell’alba era nei suoi occhi, la luce del sole mattutino usciva dall'oro dei suoi riccioli, la carnagione era trasparente come l'acqua dei ruscelli, le sue gote avevano la delicata tinta dei fiori di pesco. Il Re sapeva quanto fosse importante Rubelia per la conservazione del regno di Monte Naone ora che la sua adorata regina era morta, ma, col passare degli anni, il Re si intristiva sempre più pensando alla figlia già adolescente e al regno senza discendenza. Fino ad allora la vita di corte era stata piacevole: i cavalieri al servizio provvedevano a esaltare il senso dell'onore e del sentimento raccontando dei viaggi e delle gesta; i musici, i cantori e i poeti deliziavano d’amor cortese; spesso giungevano al borgo fortificato giocolieri e saltimbanchi e sempre venivano invitati al castello per far divertire la giovine principessa. Un giorno il sovrano decise di invitare tutti i giovani principi del regno affinché potesse offrire in isposa la figlia a colui che avesse portato in dote la maggiore ricchezza. Dopo otto settimane cominciarono a giungere al castello notizie della partecipazione alla festa di sette principi regnanti che, avendo saputo della eccezionale bellezza di Rubelia, esprimevano il desiderio di averla in isposa promettendo tutte le ricchezze in loro possesso.

I prìncipi cominciarono ad arrivare ad uno ad uno accompagnati da uno stuolo di servitori e di cavalcature cariche di doni. Ma il Re, appena lo seppe, si rifugiò nella più riposta sala del castello e concepì una malsana idea. “Organizzando un agguato lungo le strade d'accesso al regno, - disse tra sé - potrò impadronirmi del tesoro di ogni principe e darne la colpa ai molti briganti che infestano le contrade di ogni dove! Nessuno potrà muovermi accuse se tutto sarà fatto in segretezza”. Così pensò e così fece. Dunque Jovàno, aiutato da Brigida, s’impadronì dei tesori e, ogni giorno scendeva nei sotterranei del castello dove, in una apposita sala, aveva nascosto e accumulato tutto. Vi erano sette forzieri di legno e cuoio rinforzato con borchie e maniglie il cui contenuto destava grande meraviglia: monete d’oro e d’argento, collane di perle e preziosi monili con gemme incastonate di rara bellezza. Pure emergevano dai forzieri fiori e frutti d'oro sfolgoranti e pregiato vasellame. Un giorno, il sovrano, maneggiando il prezioso tesoro, preso da un raptus di follia, si mise a spargerlo d'intorno e rideva come un invasato e urlava fragorosamente facendo tremare le mura del castello. Perfino Brigida cercava di calmarlo, ma le sue grida inumane giunsero dappertutto e presto accorse gente. Era un frastuono indescrivibile di servitù e soldati che scendevano le scale verso i sotterranei. Improvvisamente si udì un boato come di tuono e un fruscio impetuoso come di vortice di vento. La scena che si presentò agli occhi degli accorsi fu allucinante: il corpo esanime del Re era disteso con gli arti divaricati e gli occhi aperti e fissi di terrore. Accanto a lui si era aperta una voragine da cui usciva un fumo verdastro e lievemente odoroso di zolfo. Non vi era traccia del tesoro che era sprofondato nel sottosuolo. Il corpo del Re fu ricomposto e fu allora chiamata Rubelia il cui dolore inconsolabile e il suo pianto durarono molte lune.

Ella, Regina per immediata necessità, decise che il corpo del padre sarebbe rimasto nel sotterraneo e inserito in un sarcofago di pietra tanto grande e pesante da chiudere la voragine che si era aperta. I migliori artisti di corte istoriarono di bassorilievi le pareti della tomba. Il corpo del Re, venne imbalsamato per una perenne conservazione. Il popolo però mormorava sulla strage dei sette prìncipi e pian piano si sparse la voce dei tesori e delle incredibili storie dei sotterranei del castello i quali, peraltro, erano stati murati. La strega Brigida non ebbe alcun beneficio da quegli eventi e cercò di rintanarsi nel suo antro ai piedi del monte Naone, ma dovette subìre anch’essa la maledizione legata ai delitti che lei stessa aveva ispirato: fu condannata alla perdita dei suoi poteri magici e a ritornare alle sue sembianze di sempre e cioè in forma di “culovria”, un animale metà donna e metà serpente, ancora capace di ammaliare e terrorizzare gli uomini, ma sempre immersa nella maligna disperazione. Turoldo, il buon mago di corte che aveva sempre contrastato i cattivi propositi del Re e della stessa Brigida, pianse per la giustizia infranta. Uscì a mezzanotte dalla finestra della torre sotto sembianza di gufo e volò lungo le vallate del Casale e della Scalisa, poi sorvolò la collina di Rossignolo e ridiscese silenzioso lungo il fiume Braemi fino al colle di Bèssima. Tutto sembrava tranquillo fino a quando non fu attirato da una nenia, un lamento lieve, quasi un tenue coro continuo. Pareva che le voci stessero sospese nel vento. Fermo su un ramo di acacia ascoltò distintamente il pianto di sette anime innocenti che vagavano nei dintorni del monte e su di esse sintonizzò il suo cuore.

Il primo passo era fatto, il filo era riannodato. Prese il volo e si accorse che era seguito da uno stormo di sette colombe bianche che, giunte al castello, presero dimora nei sottotetti della torre più alta. Turoldo, rientrato nella sua officina e visibilmente contento, disse tra sé: “Le colombe sono vive, vuol dire che nulla è perduto”. Poi, stanco delle fatiche della notte, cadde in un sonno profondo e ristoratore. Il mattino successivo, dopo tante aurore tristi e uggiose, a cui il regno si era abituato, Rubelia fu svegliata da un rumore proveniente dalle vetrate della finestra principale. Scese dal letto, aprì la finestra e vide le sette colombe che giocavano festanti sul davanzale. Ignara s’illuminò. Il tempo tuttavia passava senza che nulla accadesse. Ogni tanto giungevano voci al castello di corpi di contadini trovati uccisi nelle campagne circostanti, ma questi eventi, seppur terribili, erano divenuti abituali. Da un po’ di tempo venivano trovati anche corpi esanimi di cavalieri e si diceva che quelle uccisioni fossero opera della terribile “culovria” che infestava le contrade del regno. Rubelia fece diramare un bando in cui scrisse che chiunque riuscisse a liberare quei luoghi dalla “culovria”, avrebbe ottenuto la corona reale e il suo amore. Come prova doveva essere portato alla regina un dente del mostro. Rubelia però si intristiva ogni giorno di più e appariva sempre meno in pubblico. Non si era accorta, nella sua solitudine, che un giorno anche le candide colombe del davanzale erano volate via senza più rivederle. La vita del castello scorreva malinconica e senza speranza. Un giorno di primavera inoltrata, quando il sole volgeva al tramonto e tutt’intorno la luce vermiglia tingeva le mura e la campagna e perfino il cielo, Rubelia, come ai bei tempi della sua infanzia, osservava il paesaggio attraverso una vetrata della sua camera. Di lì a poco alcuni cavalieri batterono alle porte del castello con l’intento di vedere la Regina. Erano sette ed essa accordò loro di poter entrare. Il primo cavaliere, stanco e ferito, ma con lo sguardo radioso di vittoria, si avvicinò inchinandosi e lasciò cadere nella mano della giovane Regina un sassolino verde, quasi una gemma di smeraldo, a forma di aguzzo dente. Rubelia, ammirata e piangente, comprese il prodigio e guardò dritto nelle pupille il giovane principe. Egli, anch’esso commosso, si prostrò ai suoi piedi e disse: “Mia Regina e mia Signora, l’opera straordinaria che tu hai ordinato è compiuta. Col prezioso aiuto di sei nobili e valorosi compagni, il tuo regno è liberato per sempre dall’orrendo mostro. Eccomi al tuo cospetto come ho sempre sognato”. Rubelia al sentire tali parole, si avvicinò al giovane e gli rispose: ”Alzati Principe e mio Signore! Sono pronta a condividere la tua esistenza. Quanto ai tuoi valorosi compagni, essi divideranno con noi la corte e il regno di nuovo felice di Monte Naone ”.

E vissero tutti felici e contenti.
Domenica, 12 Agosto 2012 14:58

La leggenda del gorgo nero

La leggenda racconta che fuori le mura della città, nel piano attualmente compreso tra la Chiesa dei Teatini e la Torre del Patrisanto, esisteva uno stagno gorgogliante di acque sulfuree. Questo stagno veniva utilizzato per dirimere le liti o per stabilire una verità. Nel primo caso i due litiganti, per dimostrare la loro ragione, gettavano nello stagno ognuno una tavoletta di legno.

Se la tavoletta affondava, quello che l' aveva gettata aveva torto; al contrario, se galleggiava, aveva ragione. Nell'altro caso le donne che credevano di aspettare un bambino, si avvicinavano allo stagno e inspiravano profondamente. Se venivano colpite da malore o stordimento erano certamente gravide; in caso contrario, no. Praticamente veniva utilizzato come test di gravidanza.
Alle acque venivano quindi attribuiti il potere di scoprire gli spergiuri e quello di fornire responsi.
Nella Chiesa dei Teatini esiste un'antica tela raffigurante la Madonna del Gorgo Nero.

Domenica, 12 Agosto 2012 14:57

Il viaggio dei morti a Piazza Armerina

(25 luglio, festa di S. Giacomo Apostolo)
Questo piccolo pellegrinaggio, secondo la consuetudine antica, se non si fa da vivi si farà da morti, per cui è preferibile adempiere questa devozione in questa vita. Infatti da morti si dovrà passare attraverso le spine (tante tribolazioni).
Si parte dalla chiesetta di S. Giacomo (Bellia) a mezzanotte in punto facendosi il segno della croce e portando in mano una canna tagliata a sette nodi. Il viaggio si farà nel massimo silenzio e senza interruzione (come fantasmi), pena la decadenza del voto, e pregando. L’organizzazione del viaggio si farà prima in quanto, messisi in fila, non ci si dovrà voltare indietro, nè di lato, ma con lo sguardo fisso in avanti in atteggiamento devoto. In pratica si dovrà simulare la morte vivente. Si arriverà alla cappelletta di S. Croce e quindi si farà il viaggio di ritorno a S. Giacomo sul cui tetto si getterà la canna.
Il viaggio (ormai questa pratica è pressoché scomparsa) era fatto quasi esclusivamente da donne e solo da rari uomini per lo più in veste di accompagnatori a causa dell’ora.
Durante una notte di viaggio (di circa 30 anni fa), una donna pellegrina ha sognato S. Giacomo, un uomo alto, robusto e con la barba fluente, che le disse: "Avete fatto un buono e giusto viaggio, però non vi siete confessati e comunicati". Quindi sparì. La donna disse tutto alle proprie amiche e al prete (Padre Giangrande) il quale, non giudicando il "viaggio" come cosa cattiva, fu disposto, da allora in poi, a confessare e comunicare i pellegrini.
Si racconta che un uomo in processione vide passare due donne in silenzio e in una di queste riconobbe la propria madre morta che evidentemente stava facendo il pellegrinaggio.
Giovedì, 09 Agosto 2012 16:07

Le Novene di Natale a Piazza

Le Novene di Natale a Piazza

Le Novene a Piazza Armerina, come in tutta la Sicilia, facevano parte di una antica tradizione medievale il cui scopo era quello di tenere desta la fede popolare nelle storie evangeliche le quali venivano raccontate sotto forma poetica e cantate con accompagnamento di strumenti vari tra cui le zampogne. Erano dunque l'occasione didascalica, talvolta sotto forma di drammatizzazione, per ricordare al popolo, in buona parte analfabeta, le vicende del Natale di Gesù che tuttora sono illustrate nel presepe di tradizione francescana.
In molte strade e crocicchi esistono da sempre le edicole votive, a volte scavate come nicchia sui muri, contenenti un quadro della Madonna o della Sacra Famiglia e che vengono venerate dalla gente da tempo immemorabile. Alcune di queste addirittura possiedono il privilegio d'indulgenza parziale o plenaria se i devoti recitano una preghiera o eseguono una pratica pia.

Le novene venivano (e vengono) preparate addobbando queste edicole sacre: in genere s'incorniciava l'edicola con alti rami di alloro e si preparava sopra di essa un "cielo stellato" con gran quantità di asparago selvatico (a "sp'nèdda") in mezzo a cui si facevano impigliare batuffoli di cotone idrofilo e filuzzi di stagnola. All'interno dell'edicola, davanti all'immagine sacra, si appendevano nove grosse arance che contrassegnano i giorni in cui si celebra la novena, ma ancor di più simboleggiavano i nove mesi che il bambino Gesù trascorse nel seno della Vergine.

Per la preparazione delle novene veniva fatta una questua fra gli abitanti del quartiere o delle strade interessate e concorreva maggiormente la famiglia che aveva promesso di organizzarla a mo' di ex voto.
Ogni sera, dal 16 al 24 di dicembre, una banda di musicanti si adunava davanti alla novena ed eseguiva pezzi tradizionali che ricordavano la Natività. Veniva dato fuoco ad un gran fascio di legna che simbolicamente doveva riscaldare il Bambinello (U bamm'nèddu), ma in questo gesto s'intravedono arcaici riti propiziatori del fuoco legati al solstizio d'inverno. Vi era grande accorrere di popolo e spesso i ragazzini si spostavano da una novena all'altra portando con sé una piccola bacchetta di legno che usavano per colpire, non visti, la testa di altri bambini che stavano attorno al falò. Quando venivano scoperti, si limitavano a rispondere: "nuvèni su'!" ("che vuoi farci, sono novene"). Il repertorio bandistico d'ogni sera era pressoché lo stesso, essendosi perduta la memoria delle antiche melodie degli zampognari o delle litanie natalizie, e si concludeva con il pezzo "I pompi pi l'aria" dedicato alla Madonna ("Evviva Maria, Maria sempre evviva, evviva Maria e chi la criò. E senza di Maria salvàri non si po'). La sera del 24 dicembre, dopo il celebre brano "Tu scendi dalle stelle" e quello dedicato alla Vergine, veniva eseguita per una sola volta un curioso valzer che ricordava ai committenti il dovere di pagare i musicanti (S' su' d' carta cum'nzèli a scangé, s' su' d' pìcciuli cum'nzèli a cuntè: se sono di carta cominciateli a cambiare, se sono di moneta spicciola cominciateli a contare). Un'ulteriore novena veniva celebrata con maggior pompa il 6 gennaio, festa dell'Epifania.
Vi fu un periodo, intorno agli anni '70, che a Piazza Armerina le novene stavano per scomparire dalla consuetudine così come altre manifestazioni popolari. Un club cittadino volle riesumarne la memoria proponendo addirittura un premio per il miglior allestimento e così il filo della tradizione fu riannodato. Oggi le novene vengono regolarmente organizzate in città e anzi sono aumentate di numero anche se la devozione antica sta cedendo il passo al disincanto e al folclore. Le bande musicali eseguono, oltre a quelli tradizionali, improbabili pezzi di mazurca, tarantelle d'altri estranei usi e perfino il Jingle bells. Si fa largo utilizzo di mortaretti, fuochi d'artificio e di falò e non si lesinano lucette intermittenti più adatte all'abete natalizio che alle novene.
Ma, si sa, muta il tempo e nuove abitudini si fanno strada.

Giovedì, 09 Agosto 2012 16:00

Ggh'éra 'na vöta a Zzazza Vegghia

Dopo aver faticato nell'antico tracciato della mulattiera della collina di Piazza Vecchia ed essersi riposati più volte lungo il "viaggio", si giungeva in vista dell'eremo e del cosiddetto castello del Conte Ruggero. Per noi, ragazzi di oltre 40 anni fa, la fatica era facilitata dall'età, ma era complicata dal fatto che si doveva evitare continuamente l'ira dei proprietari delle campagne circostanti poiché venivano razziate regolarmente di tutte le cose buone che la primavera produce dalle nostre parti. Non c'era campo di fave o di piselli che non subiva l'onore di una nostra visita, non c'era un mandorleto che non ci facesse riempire le tasche di quelle piccole, acerbe, ma deliziose "m'nnulicchi" che si consumavano ovviamente con tutta la tenera buccia.
Per non parlare dei lillà, infiorescenze di un arbusto a cui i piazzesi (che chiamano "pacenzia") sono molto affezionati perché ricordano loro proprio la "presa" della Madonna di "Zzazza Vecchia" dell'ultima domenica d'aprile. I lillà si procuravano in ogni dove, pur di portarne a casa il delizioso profumo.

La Madonna, un'icona dipinta da pittore piazzese Giuseppe Paladino ad immagine di quell'altra icona bizantina di Maria SS. delle Vittorie, vessillo normanno dei campi di battaglia che è custodita nella Cattedrale, resta un intero anno nell'eremo di Piazza Vecchia a ricordo, come si sa, di quella leggendaria storia che la volle ritrovata miracolosamente dal canonico Candilia (che abitava in un piccolo eremo della contrada omonima al piano Cannata) e poi portata in solenne processione il 3 maggio del 1348, anno della grande peste che af-flisse non solo la città di Piazza, ma tutta l'Europa del tempo.La tradizione della primavera piazzese non si è mai interrotta e anzi il giorno del ritorno della sacra tela alla chiesetta di Piazza Vecchia, il 3 di maggio appunto, viene ancor più festeggiata perché la gente sfrutta la sacra devozione per vivere un'allegra kermesse campagnola davvero singolare.

Oggi la mulattiera di allora è divenuta una via carrozzabile e si è pure stemperata l'antica atmosfera della sagra popolare, ma un tempo non molto remoto la gente, dopo aver "consegnato il viaggio" lassù all'eremo, si cercava un posto all'aperto, per-lopiù nella parte bassa del colle, nei pressi della chiesetta dell'Indirizzo, e rimaneva tutto il giorno a gozzovigliare e far baldoria fin oltre il tramonto del sole quando l'assalto ad un al-bero della cuccagna (la cosiddetta "gioia") concludeva la festa. C'era un gran consumo di carciofi arrostiti, "frosgie" (frittate) di ricotta e di asparagi, salsiccia e carni varie, lattughe fresche, "calia" e poi… vino rosso fino ad inverosimili sbornie epocali. Per noi ragazzini era occasione di iniziazioni al corteggiamento, di "luzziare", che altro non era che un sistema di comunicazione non verbale fatto di sguardi e ammiccamenti alle ragazzine che oggi ormai sono mamme e anche nonne.

Da qualche decennio l'amministrazione comunale ha cercato di riprendere la tradizione riproponendo anche la cosiddetta "gioia", ed oggi l'iniziativa, per nuova affezione popolare è riapparsa collegata alla tradizione. Tuttavia, non andrebbe abbandonata, se è vero come è vero, che questo paese che abbiamo l'orgoglio di chiamare città, soffre di una fastidiosa quanto sterile sindrome logorroica, di quella malattia cioè che ci induce a chiacchierare mol-to e operare poco, salvo poi a riempirci di fumosità dormendo sulle glorie del passato.
Questo da sempre e in ogni cosa, ma, se la memoria conta un poco nel processo culturale cittadino, bisogna che lo si dimostri.

Giovedì, 09 Agosto 2012 15:59

Fiere del mio paese: storie di mercati

Fiere del mio paese: storie di mercati

Un tempo i giorni della fiera erano attesi da grandi e da piccoli ciascuno con motivazioni ovviamente diverse. Per i grandi era l'opportunità di acquistare finalmente l'agognato e necessario attrezzo di lavoro o l'utensile domestico, una bestia da soma o qualche animale da cortile, un càntero di terracotta o una "burnìa" per le olive in salamoia. Per i bambini si presentava l'occasione di poter ricevere un cavalluccio di cartapesta o un fischietto di terracotta o un tamburo di latta.
La fiera era molto attesa perché faceva parte di una festa più grande, in genere religiosa, ed era accompagnata da attrazioni e novità che venivano da lontano: un piccolo teatrino di burattini, la tenda della zingara che "indovinava la ventura", i piccoli nomadi che vendevano la "pianeta della fortuna" (fogliettino colorato col pronostico scelto a caso da un cassettino da un piccolo pappagallo in gabbia).

 

Una volta in molti paesi della Sicilia erano riservati degli spazi appositi affinché si potessero tenere con regolarità i mercati e le fiere. Piazza, non solo non faceva eccezione, ma addirittura vantava mercati del bestiame di risonanza nazionale e fiere famose per la quantità e la varietà delle mercanzie.
Da molti secoli venivano tenute a Piazza durante l'anno almeno tre fiere e l'occasione richiamava molti visitatori e acquirenti da tante località vicine e lontane.
Lo storico piazzese Giovanni Chiarandà nel 1654 scriveva che la città di Piazza fu città mercantile con tre fiere o mercati franchi per molti giorni. Menzionava così una fiera detta del SS. Sacramento che era franca di dazi per otto giorni prima e otto giorni dopo della festa del Corpus Domini. Questa antica fiera viene tenuta fino ai giorni nostri il 28 di Maggio e dura tre giorni appena, mentre fino agli anni trenta la fiera si protraeva fino all'otto di Giugno. La fiera di Maggio secondo una delibera decumana del 1840 si svolgeva dalla cantonera superiore della SS. Trinità alla cantonera del Vescovado (accanto al Duomo) e, per privilegio reale, era sotto il patronato della Chiesa Cattedrale.
Un'altra fiera antica, importante e piena di significati storici per la città era la fiera di Settembre che incominciava l'otto e si protraeva, almeno anticamente, per quindici giorni.
In verità tale fiera non si era tenuta sempre a Settembre, ma anzi, prima del 1615 essa (si chiamava "Fiera di S. Pietro") veniva aperta il 30 di Giugno e si protraeva per otto giorni "di franchezza". Il periodo non parve opportuno alla cittadinanza se fu necessario dover chiedere all' allora viceré Don Pietro Giron, Granduca di Spagna e Duca di Ossuna, di poterla spostare al primo di Settembre. E infatti nel mese di Luglio del 1615, durante un Generale Parlamento convocato a Palermo, fu formulato il "Placet" dimodoché non solo poté spostarsi la data, ma anche la località di S. Pietro. Il posto scelto fu la contrada di Bellia. Il Chiarandà ci racconta che "a due miglia dalla città verso tramontana vi è una gran pianura tanto più amena e vaga per le verdure, acque, bei giardini e alberi fruttiferi, quanto che viene addolcita dalla presenza di una immagine della SS. Vergine che, per avere inanti la porta della chiesa un gran piede di noce, viene detta S. Maria della Noce, non solo per le molte grazie, ma... ancora per la divotione di quasi tutta la Sicilia che concorre agli otto di Settembre per solennizzare la festa perloché il Magistrato impetrò dal Principe che fosse franco di ogni dazio chiunque venisse a comprare o vendere in quel mercato, per ispazio di quindici giorni, qualsiasi mercanzia. Provvidenza speciale di Maria Santissima si per onore suo, si anche per utile della sua Piazza". La fiera di Settembre che aveva una grande estensione, anche per il mercato del bestiame, era effettuata nel piano di Bellia della Madonna della Noce fino al piano di S. Giacomo (la chiesetta medievale di S.Giacomo presenta attualmente vestigia di sé davanti all'attuale cimitero nuovo). Questo avveniva non più tardi del 1840, anno in cui, regnando Ferdinando II°, fu spostata al Piano di S. Ippolito e in quella località venne tenuto fino a qualche anno addietro il mercato del bestiame, mentre per le altre mercanzie ormai da alcuni decenni il Comune ha preferito la zona del nuovo centro.
In passato un'altra importante fiera era quella di Ottobre che si teneva il 18 di quel mese ed era uno dei quindici mercati d'Italia come afferma l'Alegambe ed era chiamata Fera di Piazza e di S. Luca. Pare che fosse la fiera più antica, addirittura "istituita dal Conte Ruggero in memoria del Santo Vangelista Dipintore del prodigioso Vessillo, franca per quindici giorni". Nel 1840 le autorità amministrative decidevano di aprirla il 18 di Ottobre con durata fino al 1° di Novembre in ottemperanza alla Ordinanza dell' Intendenza della Provincia di Caltanissetta del 10 settembre di quell' anno. Si sa che per concessione reale era sotto il patronato della Compagnia dei Preti della Chiesa di S. Stefano che ne esercitava i diritti. La fiera di S. Luca si teneva nella odierna Via Um-berto detta "a strata a fera" fino al Largo S.Giovanni e Piano Teatini (oggi Piazza Martiri d'Ungheria). La consuetudine di tenere la fiera di San Luca a Piazza è testimoniata dal geografo arabo Idrisi che così scriveva intorno al 1150 nel "Libro di re Ruggero": "Piazza è un ben valido fortilizio, dal quale dipende un vasto contado, con terre da seminagione benedette (da Dio). Ha un mercato molto frequentato,..."
Fin dai tempi più remoti si teneva in ogni 24 di Giugno un mercato davanti alla Commenda dei Cavalieri di Malta in occasione della festa che i confrati celebravano per la Natività di S. Giovanni Battista. In quella piazzetta i vasai di Caltagirone vendevano una gran quantità di stoviglie e giocattoli e tutto quanto abbisognasse per le messi e per la trebbiatura. Per disposizione municipale tale mercato dopo il 1864 si cominciò a praticare nel Largo Teatini tra i due monasteri S. Giovanni e S. Chiara.
Nei tempi attuali il fascino della fiera di una volta non esiste quasi più. Esso è stato polverizzato dai mercatini che quasi ogni paese tiene settimanalmente. Altra ragione è che i negozi e i supermercati rigurgitano di merci varie, strane e anche inutili fino all'inverosimile. Nessuno ha bisogno più delle ingenue attrazioni e curiosità di una volta, ma se un tempo i mercati e le fiere servivano a far risparmiare denaro, in quanto calmieravano i prezzi, oggi non sembra più così. Infatti il "mercato del giovedì" per molta gente rappresenta un'occasione quasi obbligata per uscire dalla monotonia domestica, curiosare tra le bancarelle, incontrare amici con cui scambiare chiacchiere e cortesie e, solo per ultimo, a fare un po' di acquisti.
I tempi cambiano e con essi i bisogni, i significati, le magie.

Giovedì, 09 Agosto 2012 15:19

Chiesa di San Pietro

La chiesa di S. Pietro all’epoca della sua edificazione si trovava fuori dalle mura di Piazza Armerina e dipendeva dal Gran Priore di S. Andrea. L’edificio attuale è il frutto del lavoro di ampliamento dei frati Francescani ai quali (dopo annose controversie) nei primi anni del 1500 fu affidato. Questi inoltre costruirono il convento che ancora oggi possiamo scorgere accanto alla chiesa.
L’inaugurazione del complesso avvenne nel 1562. Parte dei lavori come la costruzione della cappella principale, delle cappelle a sud e del chiostro quadrato vennero eseguiti grazie al nobile Fra Girolamo Cagno di Piazza e per questo motivo furono scolpite nell’arco del presbiterio i simboli del suo casato.

 

Nel 1624 il convento di S. Pietro, tramite concessione del vicerè Emanuele Filiberto di Savoia, fu dichiarato di regio patronato con la conseguente innalzamento dello stemma reale nella chiesa. Fu così che le famiglie nobili di quel periodo (Trigona di Cimia, Trigona di Gatta, Sanfilippo, Boccadifuoco, Polizzi, De Assoro) fecero costruire all’interno della chiesa cappelle di gran pregio al fine di utilizzarle come mausolei.Nel frattempo l’adiacente convento era divenuto famoso per la sua ricca biblioteca, la quale nel 1876 contribuì coi suoi volumi ad apprestare l’attuale biblioteca comunale.

La chiesa di S. Pietro è un pregevole esempio di architettura medio-rinascimentale. La facciata è molto semplice, impreziosita esclusivamente dal portale manieristico in pietra arenaria.
La semplicità dell’esterno contrasta con i numerosi e ricercati elementi decorativi e architettonici che troviamo al suo interno. Una volta entrati possiamo infatti osservare il magnifico soffitto ligneo a cassettoni perfettamente conservato; non sono da meno le cappelle nobiliari già citate, in particolare quella della famiglia Trigona di Cimia che presenta dei pregevolissimi bassorilievi realizzati da Antonio Gagini. Un altro particolare da ammirare attentamente è il grande arco frapposto tra l’unica navata ed il presbiterio che è impreziosito da intarsi e rilievi raffinati. Purtroppo è andata perduta l’antica pavimentazione realizzata con la famosa ceramica di Caltagirone. Dietro l’altare centrale si trova un tabernacolo ligneo sormontato da un grande dipinto raffigurante i santi Pietro e Paolo.

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