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Martedì, 28 Agosto 2012 14:09

Eventi religiosi

Settimana Santa: Giovedi Santo: Visita ai Sepolcri; Venerdi Santo: Processione.

Ultima domenica di Aprile: Processione Religiosa Maria S.S. di Piazza Vecchia.

1 Maggio: San Giuseppe - Processione Religiosa.

2 Maggio: Maria S.S. di Piazza Vecchia Processione, spettacoli folkloristici e Albero della Cuccagna (C.da Indirizzo).

3 Maggio: Maria S.S. di Piazza Vecchia Processione, spettacoli folkloristici e Albero della Cuccagna (C.da Indirizzo).

Maggio: San Filippo - Processione e Giochi Popolari Quartiere casalotto.

Ultima domenica di Maggio: Processione Religiosa Maria Ausiliatrice.

Prima Settimana di Giugno: Processione religiosa Corpus Domini.

15 Agosto: Festa della Patrona maria S.S. delle Vittorie - Processione Religiosa.

8 Dicembre: Processione Religiosa della Santissima Immacolata Concezione.

13 Dicembre: Processione Religiosa - Santa Lucia.

16 Dicembre/6 Gennaio: Manifestazioni Natalizie, Novene

Giovedì, 23 Agosto 2012 14:23

La tortura

Quando parliamo di tortura in campo di inquisizione, ci riferiamo a quella che gli studiosi definiscono "tortura giudiziaria", cioè differente da quella retributiva e punitiva. La tortura giudiziaria, in quanto utilizzata per estorcere confessioni da testimoni o accusati, ha precedenti nell'antichità e nell'alto medioevo, molti schiavi, infatti, venivano torturati durante i processi. A causa di questi precedenti, l'uso della tortura va considerato un recupero piuttosto che un'innovazione. Il primo caso di tortura risale al 1228, e nel 1252 la Chiesa, che per prima aveva adottato il sistema inquisitorio, seguì l'esempio dei tribunali secolari consentendo l'uso della tortura.

Fu Innocenzo IV ad autorizzare l'uso della tortura nei casi d'eresia gettando le premesse per la sua applicazione nei processi alle streghe. L'uso della tortura si fonda sul presupposto che, quando una persona è sottoposta al dolore fisico durante un interrogatorio, confesserà la verità. In molti casi, però, la tortura si è rivelata un mezzo artificioso poiché le confessioni non erano veritiere. In tre casi particolari, soprattutto, la falsificazione è massima: quando la persona sottoposta alla tortura è veramente innocente; quando i particolari della confessione gli sono suggeriti sottoforma di domande; quando la tortura è eccessiva. La prova storica più evidente è la stessa caccia alle streghe, in cui migliaia d'innocenti, sotto aberraanti torture, confessarono crimini mai commessi. Chi si occupava di architettare i sistemi di tortura, sapeva bene dei limiti di queso metodo, infatti, proprio per questo, prima della metà del XIII sec. la Chiesa aveva proibito l'uso di questo metodo. Quando fu reintrodotto il sistema della tortura, un gruppo di autorità in campo di diritto formulò un complesso insieme di norme che avrebbero dovuto disciplinarne l'applicazione, riducendo al minimo la possibilità che una persona innocente potesse fornire confessioni artificiose. Queste norme erano soggette a variazioni in relazione ai luoghi o al tempo. Per motivi sia umani sia giuridici, l'uso della tortura non doveva comportare la morte della vittima, perciò, molti tribunali architettarono forme di tortura dedicate agli arti del corpo, come per esempio lo strappado che consisteva nel sollevare in alto la vittima legata con le mani dietro la schiena. Una versione estrema era lo squassamento che consisteva nello strappado, ma con la variante che la vittima aveva legato ai piedi un peso variabile fra le 40 e le 660 libbre. Altri strumenti erano la ruota e la scala. Altri strumenti quali ganasce, pinze o torchi, avevano il "pregio" di consentire un dosaggio del dolore e potevano essere rimosse immediatamente non appena fosse disponibile la confessione. Ricordiamo che molte norme, quali la proibizione del giiudice di suggerire le risposte che l'interrogante si attendeva, o il fatto che la deposizione doveva essere ripetuta dalla vittima al di fuori della camera di tortura entro le 24 ore dalla confessione, se fossero state rispettate, avrebbero risparmiato la vita di molte migliaia d'innocenti. Nei fatti quelle regole furono vanificate poiché la stregoneria era ritenuta un crimen exceptum, un crimine eccezionale. L'ossessione europea per le streghe non avrebbe mai prodotto le sue innumerevoli vittime se le norme fossero state rigorosamente rispettate. Ma questo non accadde. Un'altra omissione nelle norme riguarda la ripetizione della tortura. Quando una strega, ritrattava la confessione, un giudice poteva decidere di farla torturare una seconda o una terza volta, in violazione con tale norma. In realtà questa non doveva essere ripetuta, ma in effetti in alcuni casi si arrivò a ripeterla 56 volte sulla stessa sciagurata vittima, per altro incinta (e per questo non possibile di tortura a priori). Così come la durata venne estesa, anche la crudeltà non ebbe più limiti e in molte giurisdizioni, le torture più raccapriccianti furono dedicate alle streghe. Leggiamo nei verbali del processo ad Anna Spülerin di Ringingen che "le furono strappati gli arti inferiori e superiori e perse anche l'udito e la vista". Ad un mago sospettato di tradimento al re furono fracassate le ossa delle gambe. Altre vittime erano costrette a ingurgitare enormi quantità d'acqua, ad altre venivano cavati gli occhi, mozzate le orecchie o stritolati gli organi genitali. Queste torture alle streghe erano particolarmente violente perché molti giudici temevano che le streghe potessero resistere al dolore utilizzando la magia. Uno degli antidoti più efficaci contro le streghe, ma che non causava gravi mutilazioni al corpo, era il tormentum insomniae, che consisteva nel tenere sveglia la vittima per 40 o più ore.L'uso della tortura, specie di quella indiscriminata, non solo risolse il problema dell'insufficienza di prove, ma rese anche possibile la condanna di chiunque fosse solamente sospettato di stregoneria. Ricordiamo che quando l'uso della tortura fu abolito, i casi di condanna scesero al 50 per cento.

Giovedì, 23 Agosto 2012 14:22

Il Sabba delle streghe

Era opinione comune che i sabba fossero occasioni importanti, in cui le streghe incontravano il diavolo per adorarlo, riceve istruzioni e abbandonarsi a orge di ogni genere. Migliaia di donne affermano di avervi preso parte, quando stavano invece dormendo nei loro letti. Le confessioni venivano estorte con la tortura.

Alcune donne confondevano le proprie fantasie e paure con la realtà, altre volevano vendicarsi di qualcuno. Spesso un’imputata era costretta a denunciare altre partecipanti al sabba. Le descrizioni di ciò che vi accadeva erano molto varie, ma la sostanza era abbastanza costante.

Le streghe si recavano al sabba con il favore della tenebre, con mezzi dei trasporto magici, spesso a cavallo di manici di scopa. Giuravano fedeltà al diavolo, riferivano sulle loro attività malefiche, poi banchettavano, danzavano e si abbandonavano a licenziosità di ogni genere. Pierre de Lancre, il grande cacciatore di streghe francese dell’inizio del XVII secolo, riportò molte descrizioni di feste orgiastiche nelle provincie basche. Lì le streghe praticavano anche il vampirismo sui bambini, violavano le tombe e divoravano i cadaveri. Altrove predominavano il sacrilegio e la bestemmia: le ostie venivano profanate in tutti i modi possibili.
Si riteneva che il sabba si svolgesse regolarmente il 31 ottobre, il 30 aprile e ognuna delle quattro festività pagane che erano assorbite nel cristianesimo. Il numero dei partecipanti era lasciato alla fantasia dei cacciatori di streghe.

Giovedì, 23 Agosto 2012 14:21

Pratica criminale delle torture

Tortura (da: torcere, piegare), era quindi il complesso di forme di coercizione fisica o morale inflitte specialmente a un imputato o al testimone, per indurlo a confessare o a deporre in modo attendibile (o di convenienza – diremmo noi – per gl’inquisitori) in uso dall’antichità all’Ottocento. Si distinguevano in: tortura lieve, della durata di sette minuti; in mediocre di trenta minuti; in acre, di un’ora più il tempo necessario a recitare un Miserere, sempre quando, sotto il supplizio, il martire rimaneva ancora in vita.

Alcuni tormenti gradualmente cadono in disuso o espressamente vengono aboliti, quali: "Il tormento del velo, che lungo palmi quattro, e bagnato tenendosi a forza, aperta la bocca del reo, con istrumento di ferro, pian piano coll’acqua, che gli si dava a sorso, tutto li si facea inghiottire, finché giungesse al fondo dello stomaco, dove giunto, li veniva strappato dal carnefice, e per lo più il reo soffocavasi: onde come troppo periglioso alla vita umana fu tralasciato".
"Il tormento del fuoco: legatosi il reo ignudo, e seduto a terra, dopo essergli unti li piedi con grascia di porco, si poneano nella distanza di circa due palmi cinque rotoli di carboni accesi, i quali liquefacendo la parte untuosa ne’ piedi, li cagionavano un cruccio acerbissimo: indi scioglievasi il reo, e surto in piedi da due manigoldi sostenuto, faceasi camminare sopra alcuni bottoncini di ferro rovente, che entrando nelle infocate piante de’ piedi, ne restava il meschino paziente per tutta la sua vita offeso, e come tormento tirannico fu con bando abolito".
"Assai molesto, ed al pari inumano era Il tormento della capra, poiché bagnati i piedi del reo vi si attaccava molta quantità di sale, e indi conduceasi una capra, la quale, avida del salso, con la scabrosa lingua tanto quelli lambiva, fino a che, rotta la cute, e consumata la parte carnosa giungeva a scoprire l’osso".

Giovedì, 23 Agosto 2012 14:19

Iustitia: un processo durato 169 anni

Il S. Uffizio, questo tremendo istituto, costituito per il perseguimento della haeretica pravitas, fu in realtà, attraverso la feroce repressione delle eresie vere o presunte (e la confisca dei beni dei condannati), strumento dell’assolutismo regio, tant’è che gli inquisitori poterono sempre nei confronti del sovrano rivendicare il merito di "tener saldo il regno", così da garantire alla monarchia di Spagna l’ordine statale e sociale in una regione "piena di infedeli": giudei, maomettani, luterani e in genere seguaci di correnti religiose eterodosse.

I pericoli, in verità, erano assai minori di quelli prospettati, né è da credersi a una Sicilia infestata da fermenti ereticali, come l’abbondanza dei giudizi e il gran numero di roghi accesi a consumare atrocemente i destini delle infelici vittime vorrebbero far credere. Bastava poco per essere accusati di "eresia". Bastava poco per l’accusa e poco passava fra l’accusa e la condanna, ché, nel fanatico zelo dei giudici, nella sommarietà e nella violenza delle procedure, esperite senza rispetto dei diritti della difesa e al di fuori da ogni garanzia canonica, al disgraziato non era dato scampo una volta finito nel torchio del S. Uffizio.
Così, per tre secoli, dalla sua istituzione nel 1487 alla soppressione nel 1782, la Sicilia si pianse il S. Uffizio.
Si cominciò in sordina con un delegato senza stabile dimora, il domenicano Antonio La Pegna, il quale fu tanto zelante che ad agosto aveva già acceso il primo rogo: toccò ad Eulalia Tamarit, colpevole di essere ebrea.Fino al 1513, quando il Tribunale dell’Inquisizione divenne permanente, vennero condannati altri 27 infelici; poi, nell’anno della stabilizzazione dell’organo, quasi a celebrare l’evento, d’un colpo solo i roghi furono 35, e non tutti di vivi, poiché tanto era il furore della vendetta che fra le fiamme platealmente furono spediti persino i cadaveri di coloro che nell’attesa dell’esecuzione capitale erano deceduti: furono disseppelliti e arsi a pubblico esempio.
All’epoca della nostra storia, che si svolge agli inizi del Settecento, l’implacabile persecuzione si era un po’ moderata: i processi si concludevano con più miti condanne e l’ultimo rogo si era acceso circa mezzo secolo addietro. Nel 1724, però, gli inquisitori si destarono dal lungo torpore, allorquando si ritrovarono in carcere due infelici, cui, avendo loro accollato l’etichetta di "eretici formali impenitenti", non altra sorte poteva essere riservata che quella d’esser arsi vivi, e li destinarono difatti all’esemplare autodafè, l’"atto pubblico di fede" (una circonlocuzione questa per non indicare chiaramente l’atrocità della condanna, ma si trattava in concreto di arrostirli).Immane e irredimibile, del resto, il loro peccato: entrambi religiosi e nativi di Caltanissetta, suor Geltrude Maria, terziaria benedettina, e fra Romualdo, monaco agostiniano scalzo, erano caduti in errore di quietismo (1) e di molinismo (2).
Fu così che suor Geltrude e fra Romualdo finirono nelle carceri dello Steri, sede dell’Inquisizione, nel 1699; si chiamavano al secolo Filippa Cordovana e Ignazio Barberi e contavano allora 32 anni. In carcere vi rimasero per quattro anni, sempre a protestare l’onestà della loro fede e la loro castità.
Quietismo: movimento mistico e religioso del secolo XVII, sorto nell’ambito del cattolicesimo ma condannato dalla Chiesa, secondo cui l’unione con Dio si può raggiungere mediante uno stato di passività e contemplazione, fino all’annullamento di ogni volontà e responsabilità umana.
Monilismo: nome del gesuita spagnolo Luid de Molina (1536 –1600); dottrina che sviluppa la tesi dell’infallibilità della grazia divina basata sulla previsione divina della futura libera adesione della volontà dell’uomo alla grazia stessa.
Obbligati a far penitenza, ostinatamente si rifiutarono di ammettere colpe che non si riconoscevano, e tanto erano stati seviziati che gridarono in faccia ai giudici di sapere, per rivelazione divina, che l’Inquisizione era opera del diavolo. Così si persero: furono dichiarati eretici formali impenitenti e pertinaci e destinati alla giustizia del fuoco, "per la purificazione dello spirito e del corpo". Ma non subito vennero consegnati al carnefice: si voleva il recupero delle loro anime, e dalla Spagna giunse l’ordine che stessero segregati fino al pentimento.Ma quale pentimento? Quelli restavano refrattari a prigione e torture. Alla fine, visto che non si riusciva a convincerli, nell’ottobre del 1720 giunse l’ordine della esecuzione, e tuttavia quelli rimarranno ancora per quattro anni a gemere nelle segrete dello Steri; quando infine, il 6 aprile 1724, fu solennemente celebrato l’"atto pubblico di fede", apparecchiato nel piano di S. Erasmo, avevano passato i 57 anni ormai e ne avevano tribolati quasi la metà in cella.
UN ERRORE DI GIUSTIZIA
Sebbene assai rari fossero i casi di assoluzione in istruttoria, non può dirsi che questi talora non capitassero. Toccò proprio a una sorella di suor Geltrude di esser riconosciuta innocente dopo aver scontato una lunga detenzione: tre anni e otto mesi di duro carcere; e non altra colpa aveva la poveretta se non quella di essere congiunta dell’altra. Fu il suo, dunque, il caso di un riconosciuto errore di giustizia, che è comune in ogni tempo, né certo la vicenda dell’infelice – indagata un secolo fa dal La Mantia negli atti dell’Inquisizione – meriterebbe ricordo se non fosse per l’originalità dei bizzarri sviluppi che ebbe la vicenda giudiziaria che si protrasse per 169 anni.
Si chiamava al secolo Margherita Cordovana ed era monaca benedettina come la sorella, sotto il nome di suor Amata di Gesù: con suor Geltrude venne incarcerata fra il giugno e il luglio del 1699 e solo nel febbraio del 1703 riacquistò la libertà. Ma, proprio quando sembrava che i guai fossero finiti, per altro verso ricominciarono: il Tribunale aveva fatto i conti e calcolato che il mantenimento in carcere della donna, per tutti quegli anni, era costato 40 onze di alimenti, e ora ne pretendeva il rimborso.
Ma come? Era stata sottratta al monastero, infamata, tenuta in prigionia, inquisita, vessata sebbene innocente, e malgrado ciò si pretendeva persino che pagasse? Così andavano le cose col foro dell’Inquisizione, che viveva sulle rendite di multe e confische e con esse doveva mantenere uno stuolo di consultori e familiari, di impiegati e persino una propria polizia segreta, col solo compito di spiare, e poiché le denunzie fruttavano in percentuale, ecco che i delatori pullulavano; ma costavano pure, come costava l’intera impalcatura tribunalizia, sicché già fin dagli inizi del Settecento gli inquisitori lamentavano crescenti ristrettezze economiche, sebbene di soli interessi bancari sui capitali provenienti dalle confische il S. Uffizio percepisse quattromila onze l’anno. Una cifra ragguardevole a quei tempi.
CONFISCA DI TUTTI I BENI AI TRE FRATELLI CORDOVANA
A suor Amata non restò altro che di piegarsi e si obbligò, con la fideiussione del fratello Gioacchino, a versare venti onze l’anno; non le pagò, però, perché non le aveva, e il S. Uffizio non perse tempo ad incamerarsi tre salme e undici tumuli di terreno e un tenimento di quattro case, eredità paterna, che la poveretta possedeva in territorio di Caltanissetta; né fu sufficiente, perché successivamente confiscò un altro appezzamento di terreno, di pari estensione, appartenente a Gioacchino, e nel 1724 portò via terre e case di suor Geltrude, allora riconosciuta colpevole e condannata al fuoco.
A quarant’anni di distanza, di solo reddito dominicale il podere di suor Amata aveva fruttato al Tribunale 148 onze, e la donna, ormai vecchissima e ridotta in miseria, ardì di fare i conti in tasca agli inquisitori e nel 1742 chiese "all’incorrotta giustizia ed integrità" di quei magistrati che le venissero restituite le terre e le fosse rimborsata la differenza di 108 onze, potendo ritenersi il suo debito ormai soddisfatto. Morì illusa in quell’anno stesso, lasciando erede dei propri diritti un parente, tale Emanuele Miraglia.E Miraglia subito si diede ad invocare il recupero delle terre e del credito di suor Amata. Ma il Tribunale tenne duro: le terre gli appartenevano – eccepì – in forza della doppia incorporazione eseguita dei beni di suor Amata e del fratello Gioacchino, poiché il debito non era stato assolto, e per il decorso del tempo tale possessione era da considerarsi usucapita; in ogni caso, la sopravvenuta condanna di suor Geltrude al rogo aveva instaurato il S. Uffizio nel diritto di confisca, né molto importava che le terre rivendicate fossero della sorella innocente, sicché insomma, per l’insolvenza dell’una o per l’eresia dell’altra, terre e case ora appartenevano pleno iure al Tribunale.
Miraglia comprese l’antifona, intuì che non l’avrebbe spuntata con quei rapaci e mutò registro; chiese e ottenne che i terreni e le abitazioni almeno gli venissero concessi in enfiteusi, e il 4 marzo 1742 stipulò con gli inquisitori Franchina, Ventimiglia e Montoye una transazione, in forza della quale si obbligava a pagare al Tribunale in perpetuo un canone annuo di dieci onze per la conduzione della proprietà e ad eseguire nelle terre migliorie e benfatti per una spesa di cinquanta onze, pena la rivalsa sui propri beni; gli toccò per soprammercato di sottoscrivere che riconosceva l’accordo, non solo perfettamente legale, ma anche giusto e vantaggioso e che lo accettava grato animo.Per molti anni pagò, e dopo di lui il figlio Michele, ma, allorché nel 1782, con gran festa di popolo e rogo d’incartamenti e suppellettili, il S. Uffizio venne soppresso, i pagamenti furono interrotti.La fecero franca per più di mezzo secolo i Miraglia, succedutisi di generazione in generazione nel possesso delle case e delle terre, fino a che nel 1836 lo Stato, subentrato nei diritti all’abolito Tribunale, facendo una ricognizione dei conti della soppressa azienda inquisitoriale, non s’avvide di quella partita e si diede a reclamare la riscossione del credito; tuttavia, l’esattore comunale di Caltanissetta, cui competeva l’esazione del tributo, dovette ormai accontentarsi di pretendere il pagamento dei soli canoni dell’ultimo decennio: poco meno di 105 onze, con l’aggravio degli interessi legali.
Ma il titolo, vale a dire la transazione del 1742, non si trovava e l’esattore sosteneva il proprio diritto di riscossione sulla scorta dei vecchi pagamenti eseguiti all’Inquisizione: insomma, se i Miraglia avevano pagato un censo annuo fino al 1782, segno era che erano tenuti al pagamento in perpetuo.I figli di Michele, succeduti al padre, si opposero, contestando l’efficacia giuridica della prova addotta, e la controversia si trascinò per un trentennio attraverso ben cinque gradi e ordini di giudizio, sballottata fra le corti di Caltanissetta, Palermo e Catania.Intanto, il contratto enfiteutico del 1742 era stato rinvenuto e ai Miraglia era toccato di cambiar linea di difesa: se il loro avo si era assoggettato al canone, dissero, era pur vero che il contratto era stato stipulato "con violenza e terrore", sicché era da reputarsi viziato alle radici e per di più aveva per oggetto beni che di diritto dovevano spettar loro perché confiscati alle povere Cordovano e al fratello di esse.
Dall’altra parte, l’Amministrazione finanziaria, tenacissima, non mollava: si era pervenuti al 1867; allo Stato borbonico era subentrato il Regno d’Italia, agli eredi Miraglia altri eredi della stessa famiglia, e l’Intendenza di finanza adesso reclamava trenta annualità di canoni fino a quell’anno.Come si concluse? I nuovi Miraglia, esausti dal lungo combattere, ricorsero con una petizione nientemeno che in Parlamento, invocarono l’estinzione dei procedimenti, il riconoscimento del loro libero possesso delle terre, la rinuncia da parte dell’amministrazione finanziaria ai futuri canoni, la restituzione di tutte le annualità pagate dai loro avi fin dal 1742, poiché quella storia era insorta dall’ingiusta confisca operata dal Tribunale dell’Inquisizione.
La spuntarono, ma ci volle un voto della Camera, che l’8 marzo 1868, riconoscendo il loro buon diritto, delegò il ministro delle finanze al bonario componimento della questione. Trascorsero poi altri quattro anni, e infine il 23 febbraio 1872 si addivenne a una transazione: tutti i giudizi venivano abbandonati, il contratto d’enfiteusi del 1742 era dichiarato nullo perché estorto con violenza e terrore, le terre di Caltanissetta erano riconosciute di libera e assoluta proprietà dei Miraglia, i quali non avrebbero dovuto più pagare i canoni arretrati; in compenso, essi rinunziavano ad ogni pretesa sulle annualità versate.Era un accordo equo, tutto sommato: c’erano voluti 169 anni, ma alla fine giustizia era stata fatta.
C.A.Pinnavaia

Giovedì, 23 Agosto 2012 14:18

Racconti sulle belle donne 2

"Una madre mise a dormire la propria figlioletta di appena un mese, nel proprio letto, fra lei e suo marito. Verso mezzanotte si accorse che la piccola era sparita, così si mise a cercarla e la trovò che dormiva serenamente sotto il letto. La madre scolvolta per l'accaduto, non riuscendo a trovare una spiegazione, la prese e la rimise fra nel proprio letto.
L'indomani raccontò il fatto alla sucera la quale le disse che non avrebbe dovuto prendere la bambina da terra per non fare adirare le "Belle Signore"…

Si narra, infatti, che queste Signore prendano la notte i bambini per giocare e la mattina li ripongono nel posto in cui dormivano, senza nuocergli. Però, se esse vengono disturbate, si offendono e così come la madre toglie loro il bambino, esse lo tolgono alla madre, ma nel modo più violento: uccidendolo.
Alla bambina di questa storia non accade nulla sul momento, infatti cresceva bella e sana. Quando però mise i primi dentini, le spuntarono prima gli incisivi superiori, i mascellari, piuttosto che gli incisivi mediali superiori, i mandibolari, che precedono nella dentizione normale, gli incisivi mascellari.
Una donna anziana, osservando la bambina esclamò costernata: Ih, Bedda Matri! Sunu i chiovi du tabutu!!!" (Oh Madonna! Sono i chiodi della bara!!!).
Sembrò una premonizione: infatti, all'età di cinque anni la bimba morì di spavento, quando all'asilo, tenuta da religiose, fu messa per castigo in isolamento totale dalla reverenda madre, in uno sgabuzzino piccolo e buio per molte ore".

Fonte: Vittorio Malfa, «Maghi, Streghe e malìe nel cuore di Sicilia».

Giovedì, 23 Agosto 2012 14:18

Racconti sulle belle donne 1

C'era coricato in una culla un bambino di 18 mesi. La madre, a sera inoltrata, prima di andare a letto, andò presso la culla del figlio per accertarsi che il piccolo dormisse, ma non lo trovò.
Cercò per molto tempo dentro e fuori la casa, poi improvvisamente il bambino le riapparve. La madre decise di portarlo nel letto e metterlo fra sé e il marito. Dopo quell'esperienza però il piccolo non camminò più, rimase invalido.

Le Belle Donne prendono ogni tanto i bambini per capriccio personale. Esse sono veri e propri fantasmi che si divertono la notte con questi bambini; il giorno seguente li riportano a casa. Questo lo facevano anche con pesone adulte che, dopo la notte, rimanevano ferite o invalide, o addirittura morivano.

Fonte: Vittorio Malfa, «Maghi, Streghe e malìe nel cuore di Sicilia».

Giovedì, 23 Agosto 2012 14:17

Le donne di Fuora

Le donne di Fuora non vanno confuse con le maliarde e le streghe, poichè secondo alcuni nel loro corpo non alberga un particolare spirito. Le donne di fuora vengono chiamate anche "belle signore".
Secondo la credenza, queste signore escono di casa la notte, non col corpo e lo spirito, ma solamente con lo spirito. Vanno a trovare gli spiriti degli inferi, le anime vaganti, per averne consigli, risposte e domande di cose future, secondo le richieste dei clienti. Era credenza che le "signore" costituivano una società di 33 potenti creature, le quali erano sotto la dipendenza di una mamma maggiore, che si trovava a Messina. Tre volte la settimana, le notti di martedi, giovedi e sabato uscivano in ispirito e andavano a concilio a Ventotene, per deliberare sulle fatture da rompere, le legature da sciogliere, i castighi o i premi da proporre contro o in pro di chi ha meritato il loro odio o il loro amore.

La donna di fuora prima di coricarsi ricordava al marito o ad altri che erano in casa che la notte era di uscita, e proibiva a tutti che non doveva essere toccata durante la sua uscita.
Chi voleva in casa una "bella signora" doveva prima della mezzanotte, ardere dell'incenso, foglie d'alloro e rosmarino. Il profumo chiama le belle signore al passare. Entrano per le fessure o per il buco della serratura, poichè sono spirito. Le donne di fuora non si lasciano vedere da nessuno, ma il loro passaggio è rivelato da sentori e da rumori impercettibili. Si vuole che le prime donne di fuora ricevettero la potenza direttamente dal demonio, a cui per contratto diedero l'anima. La credenza vuole che le doti di una donna di fuora devono essere la bellezza, il senso della giustizia, la virtù del silenzio e dell'ubbidienza alle decisioni prese insieme con le compagne.

Martin & C., Superstizione, stregoneria e magia del popolo siciliano

Espressione spagnola che significa "atto di fede". Gli autos da fé erano grandiose cerimonie pubbliche, nel corso delle quali l’Inquisizione notificava agli imputati le sentenze, che poi venivano eseguite sul posto. Nei bandi, che portavano a conoscenza della popolazione la data dell’"atto di fede", si prometteva che "tutti quilli chi asistiranno a la dicta predica et solepne Acto guadagneranno le indulgencie" e si minacciava "excomunicatione maiore" a chiunque tentasse di dare aiuto ai condannati. La presenza agli "atti di fede" era obbligatoria come alla messa domenicale per "fidelli christiani […] di etate de anni dudici in suso".tutti Agli atti generali di fede, nel corso dei quali si pronunciavano decine di condanne, presenziavano le autorità e la nobiltà con in testa il viceré, il clero cittadino regolare e secolare con in testa l’arcivescovo, e una grande moltitudine di popolo. Tutta questa gente sfilava in lunghissima processione dal fosco palazzo Steri, sede dell’Inquisizione, al luogo dove si sarebbe svolto l’auto da fé.

Non c’era un posto fisso per il loro svolgimento, ma, a seconda delle circostanze, avevano luogo nei numerosi slarghi cittadini capaci di accogliere folle di spettatori. Se ne eseguirono nel piano della Marina, in quello dei Bologni, dell’Ucciardone, nella piazza della Vucciria Vecchia, nel piano della Loggia e in quello di S. Domenico.

I poveri disgraziati che subivano l’"atto di fede" erano detti penitenziati. I riconciliati, cioè coloro che avevano dichiarato di essere pronti ad abiurare alle loro eresie e a riconciliarsi con la Chiesa, scontando la pena a cui il Tribunale del S. Ufficio li avrebbe condannati, si presentavano indossando un saio giallo, chiamato sambenito, che ben presto divenne simbolo di vergogna sociale e di emarginazione non soltanto per chi lo indossava, ma anche per le famiglie dei condannati. Gli imputati, nel corso della cerimonia, dopo aver ascoltato la lettura dell’atto di accusa, abiuravano: de levi se erano stati soltanto in sospetto di eresia; de vehementi se la loro eresia era stata accertata. Indi, subivano le pene comminate loro, a cui si accompagnava sempre la confisca dei beni a beneficio dell’Inquisizione. In genere, i riconciliati venivano sottoposti alla frusta del boia per un certo numero di cazzottate (frustate), che andavano da una decina ad oltre duecento. Dopodiché si avviavano a scontare la pena, che poteva consistere in un certo numero di anni di disterro, cioè di esilio dal proprio paese, o di lavori forzati al remo delle galee o in lunghi anni di triste detenzione nelle segrete di qualche carcere ecclesiastico.
Diversa era la sorte di chi non abiurava alle proprie convinzioni. Costoro, dichiarati ostinati e pertinaci, venivano rilasciati al braccio secolare della giustizia – dato che la santa Chiesa non uccide nessuno – per essere bruciati sul rogo. La stessa sorte toccava a chi, riconciliato in un "atto di fede", ricadeva poi negli stessi errori. Dichiarato relapso, veniva bruciato immancabilmente. Se si era pentito, gli si faceva la grazia di strozzarlo prima di essere bruciato.
Anche i morti venivano bruciati. Per accusa di eresia, l’Inquisizione faceva riesumare i cadaveri per bruciarli pubblicamente (l’anticipazione della odierna "cremazione"). I contumaci, invece, venivano bruciati in statua. In attesa di poterli bruciare in carne ed ossa, si poneva sul rogo un simulacro di cartapesta. Durante la sua lunga attività, dalla fine del Quattrocento alla fine del Settecento, l’Inquisizione organizzò centinaia di autos da fé, tutti di inaudita crudeltà. Alcuni di essi, per la qualità dei condannati e per la grandiosità del cerimoniale, restarono fissati nei diari dei contemporanei e in pubblicazioni a stampa. Il più famoso è certamente l’auto da fé tenutosi il 6 aprile 1724, in cui, tra altri ventisei penitenti condannati a pene varie, furono bruciati vivi fra Romualdo e suor Geltrude. Il primo, a parere di molti, era poco sano di mente e mormorava a se stesso: "Fra Romualdo sta’ fermo"; l’altra era una povera suora che diceva agli inquisitori: "Io son donna, voi siete teologi; non posso mettermi a contendere con voi".
Nel 1790, il mai troppo apprezzato viceré, marchese Domenico Caracciolo, aboliva il feroce tribunale dell’Inquisizione, nemico dell’umanità, della tolleranza e del cristianesimo. Purtroppo, i siciliani dimostrarono di essere diseducati ad apprezzare questi valori. Agli atti della storia restano per sempre due terribili documenti: la "Supplica del Senato di Palermo perché il Re non permetta di abolire l’Inquisizione" e la "Supplica della Deputazione del Regno a S.M. per non abolirsi il Tribunale del S. Offizio". La Deputazione del Regno era la massima espressione del Parlamento siciliano. Rappresentava, o avrebbe dovuto rappresentare, tutti i siciliani.

Creato da Federico II nel XII secolo per combattere sette considerate eretiche come i valdesi, i paterini e i circoncisi, il Tribunale dell'Inquisizione in Sicilia iniziò a far sentire la sua tragica presenza a partire dal 1487: da questa data in poi, infatti, il famoso Torquemada inviò nell'Isola inquisitori dalla Spagna e rese il Tribunale una vera e propria istituzione la cui sede ufficiale divenne Palazzo Chiaramonte a Palermo. Così l'Inquisizione divenne presto per i re spagnoli uno degli strumenti più efficaci per tenere in soggezione l'intera Isola grazie anche alla nobiltà siciliana che, contando numerosi suoi membri tra i funzionari laici del Tribunale, collaborava attivamente, in cambio di numerosi privilegi, a preservare l'ortodossia politica e religiosa.

L'intolleranza del Tribunale dell'Inquisizione, infatti, non si dimostrò solo nei confronti delle altre confessioni religiose, peraltro molto diffuse in Sicilia, ma contribuì anche a respingere ogni fonte di pensiero indipendente e a gettare l'Isola in un oscuro isolamento culturale. In particolare nel corso del XVI secolo, il Tribunale si caratterizzò per i suoi metodi feroci di cui si ricordano soprattutto i tremendi atti pubblici di fede, i famigerati -autos da fé-. In quegli anni, numerosi frati e suore, falsari, mandanti di assassini e debitori del fisco vennero condannati senza appello dagli inquisitori a pene atroci.
Per estorcere le confessioni di eresia si praticava la tortura, e se le vittime nel frattempo morivano si riteneva che ciò fosse accaduto per colpa loro o per giudizio di Dio. La bestemmia poteva meritare cento frustate, il taglio della lingua oppure il seppellimento.
La stregoneria, la bigamia e la perversione sessuale erano tra i reati più frequentemente giudicati da questi Tribunali, che non tralasciavano neppure l'aspetto -mondano- delle esecuzioni: sembra, infatti, che durante le impressionanti cerimonie venivano distribuiti anche pasticcini e bibite rinfrescanti alle gentildonne siciliane. Alle violenze ed ingiustizie perpetrate in nome della morale religiosa si aggiunsero poi la corruzione e l'avidità dagli stessi inquisitori che, in virtù della loro appartenenza al Tribunale, non potevano essere giudicati dai tribunali ordinari: certi così dell'impunità, si macchiavano di gravissime colpe e fomentavano i disordini più gravi. Ma gli abusi e l'enorme potere acquisito dagli inquisitori, che si arricchirono soprattutto attraverso la confisca dei beni delle vittime del Tribunale, crebbero a dismisura tanto che sul finire del 1500 anche Madrid iniziò a porre dei limiti a questo Stato parallelo che governava la Sicilia.
Per assistere alla fine definitiva del Tribunale, tuttavia, si dovrà aspettare il 1782, anno in cui il viceré Domenico Caracciolo avvierà un radicale programma di riforme nell'Isola partendo proprio dall'abolizione di uno dei simboli più significativi del vecchio regime. L'anno successivo il re fece bruciare tutte le carte dell'Inquisizione: in un rogo che durò un giorno e una notte vennero così cancellate le pagine di uno dei periodi più oscuri che visse mai la Sicilia.

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