

Settimana Santa: Giovedi Santo: Visita ai Sepolcri; Venerdi Santo: Processione.
Ultima domenica di Aprile: Processione Religiosa Maria S.S. di Piazza Vecchia.
1 Maggio: San Giuseppe - Processione Religiosa.
2 Maggio: Maria S.S. di Piazza Vecchia Processione, spettacoli folkloristici e Albero della Cuccagna (C.da Indirizzo).
3 Maggio: Maria S.S. di Piazza Vecchia Processione, spettacoli folkloristici e Albero della Cuccagna (C.da Indirizzo).
Maggio: San Filippo - Processione e Giochi Popolari Quartiere casalotto.
Quando parliamo di tortura in campo di inquisizione, ci riferiamo a quella che gli studiosi definiscono "tortura giudiziaria", cioè differente da quella retributiva e punitiva. La tortura giudiziaria, in quanto utilizzata per estorcere confessioni da testimoni o accusati, ha precedenti nell'antichità e nell'alto medioevo, molti schiavi, infatti, venivano torturati durante i processi. A causa di questi precedenti, l'uso della tortura va considerato un recupero piuttosto che un'innovazione. Il primo caso di tortura risale al 1228, e nel 1252 la Chiesa, che per prima aveva adottato il sistema inquisitorio, seguì l'esempio dei tribunali secolari consentendo l'uso della tortura.
Era opinione comune che i sabba fossero occasioni importanti, in cui le streghe incontravano il diavolo per adorarlo, riceve istruzioni e abbandonarsi a orge di ogni genere. Migliaia di donne affermano di avervi preso parte, quando stavano invece dormendo nei loro letti. Le confessioni venivano estorte con la tortura.
Alcune donne confondevano le proprie fantasie e paure con la realtà, altre volevano vendicarsi di qualcuno. Spesso un’imputata era costretta a denunciare altre partecipanti al sabba. Le descrizioni di ciò che vi accadeva erano molto varie, ma la sostanza era abbastanza costante.
Tortura (da: torcere, piegare), era quindi il complesso di forme di coercizione fisica o morale inflitte specialmente a un imputato o al testimone, per indurlo a confessare o a deporre in modo attendibile (o di convenienza – diremmo noi – per gl’inquisitori) in uso dall’antichità all’Ottocento. Si distinguevano in: tortura lieve, della durata di sette minuti; in mediocre di trenta minuti; in acre, di un’ora più il tempo necessario a recitare un Miserere, sempre quando, sotto il supplizio, il martire rimaneva ancora in vita.
Alcuni tormenti gradualmente cadono in disuso o espressamente vengono aboliti, quali: "Il tormento del velo, che lungo palmi quattro, e bagnato tenendosi a forza, aperta la bocca del reo, con istrumento di ferro, pian piano coll’acqua, che gli si dava a sorso, tutto li si facea inghiottire, finché giungesse al fondo dello stomaco, dove giunto, li veniva strappato dal carnefice, e per lo più il reo soffocavasi: onde come troppo periglioso alla vita umana fu tralasciato".Il S. Uffizio, questo tremendo istituto, costituito per il perseguimento della haeretica pravitas, fu in realtà, attraverso la feroce repressione delle eresie vere o presunte (e la confisca dei beni dei condannati), strumento dell’assolutismo regio, tant’è che gli inquisitori poterono sempre nei confronti del sovrano rivendicare il merito di "tener saldo il regno", così da garantire alla monarchia di Spagna l’ordine statale e sociale in una regione "piena di infedeli": giudei, maomettani, luterani e in genere seguaci di correnti religiose eterodosse.
I pericoli, in verità, erano assai minori di quelli prospettati, né è da credersi a una Sicilia infestata da fermenti ereticali, come l’abbondanza dei giudizi e il gran numero di roghi accesi a consumare atrocemente i destini delle infelici vittime vorrebbero far credere. Bastava poco per essere accusati di "eresia". Bastava poco per l’accusa e poco passava fra l’accusa e la condanna, ché, nel fanatico zelo dei giudici, nella sommarietà e nella violenza delle procedure, esperite senza rispetto dei diritti della difesa e al di fuori da ogni garanzia canonica, al disgraziato non era dato scampo una volta finito nel torchio del S. Uffizio."Una madre mise a dormire la propria figlioletta di appena un mese, nel proprio letto, fra lei e suo marito. Verso mezzanotte si accorse che la piccola era sparita, così si mise a cercarla e la trovò che dormiva serenamente sotto il letto. La madre scolvolta per l'accaduto, non riuscendo a trovare una spiegazione, la prese e la rimise fra nel proprio letto.
L'indomani raccontò il fatto alla sucera la quale le disse che non avrebbe dovuto prendere la bambina da terra per non fare adirare le "Belle Signore"…
Fonte: Vittorio Malfa, «Maghi, Streghe e malìe nel cuore di Sicilia».
C'era coricato in una culla un bambino di 18 mesi. La madre, a sera inoltrata, prima di andare a letto, andò presso la culla del figlio per accertarsi che il piccolo dormisse, ma non lo trovò.
Cercò per molto tempo dentro e fuori la casa, poi improvvisamente il bambino le riapparve. La madre decise di portarlo nel letto e metterlo fra sé e il marito. Dopo quell'esperienza però il piccolo non camminò più, rimase invalido.
Fonte: Vittorio Malfa, «Maghi, Streghe e malìe nel cuore di Sicilia».
Le donne di Fuora non vanno confuse con le maliarde e le streghe, poichè secondo alcuni nel loro corpo non alberga un particolare spirito. Le donne di fuora vengono chiamate anche "belle signore".
Secondo la credenza, queste signore escono di casa la notte, non col corpo e lo spirito, ma solamente con lo spirito. Vanno a trovare gli spiriti degli inferi, le anime vaganti, per averne consigli, risposte e domande di cose future, secondo le richieste dei clienti. Era credenza che le "signore" costituivano una società di 33 potenti creature, le quali erano sotto la dipendenza di una mamma maggiore, che si trovava a Messina. Tre volte la settimana, le notti di martedi, giovedi e sabato uscivano in ispirito e andavano a concilio a Ventotene, per deliberare sulle fatture da rompere, le legature da sciogliere, i castighi o i premi da proporre contro o in pro di chi ha meritato il loro odio o il loro amore.
Martin & C., Superstizione, stregoneria e magia del popolo siciliano
Espressione spagnola che significa "atto di fede". Gli autos da fé erano grandiose cerimonie pubbliche, nel corso delle quali l’Inquisizione notificava agli imputati le sentenze, che poi venivano eseguite sul posto. Nei bandi, che portavano a conoscenza della popolazione la data dell’"atto di fede", si prometteva che "tutti quilli chi asistiranno a la dicta predica et solepne Acto guadagneranno le indulgencie" e si minacciava "excomunicatione maiore" a chiunque tentasse di dare aiuto ai condannati. La presenza agli "atti di fede" era obbligatoria come alla messa domenicale per "fidelli christiani […] di etate de anni dudici in suso".tutti Agli atti generali di fede, nel corso dei quali si pronunciavano decine di condanne, presenziavano le autorità e la nobiltà con in testa il viceré, il clero cittadino regolare e secolare con in testa l’arcivescovo, e una grande moltitudine di popolo. Tutta questa gente sfilava in lunghissima processione dal fosco palazzo Steri, sede dell’Inquisizione, al luogo dove si sarebbe svolto l’auto da fé.
I poveri disgraziati che subivano l’"atto di fede" erano detti penitenziati. I riconciliati, cioè coloro che avevano dichiarato di essere pronti ad abiurare alle loro eresie e a riconciliarsi con la Chiesa, scontando la pena a cui il Tribunale del S. Ufficio li avrebbe condannati, si presentavano indossando un saio giallo, chiamato sambenito, che ben presto divenne simbolo di vergogna sociale e di emarginazione non soltanto per chi lo indossava, ma anche per le famiglie dei condannati. Gli imputati, nel corso della cerimonia, dopo aver ascoltato la lettura dell’atto di accusa, abiuravano: de levi se erano stati soltanto in sospetto di eresia; de vehementi se la loro eresia era stata accertata. Indi, subivano le pene comminate loro, a cui si accompagnava sempre la confisca dei beni a beneficio dell’Inquisizione. In genere, i riconciliati venivano sottoposti alla frusta del boia per un certo numero di cazzottate (frustate), che andavano da una decina ad oltre duecento. Dopodiché si avviavano a scontare la pena, che poteva consistere in un certo numero di anni di disterro, cioè di esilio dal proprio paese, o di lavori forzati al remo delle galee o in lunghi anni di triste detenzione nelle segrete di qualche carcere ecclesiastico.
Diversa era la sorte di chi non abiurava alle proprie convinzioni. Costoro, dichiarati ostinati e pertinaci, venivano rilasciati al braccio secolare della giustizia – dato che la santa Chiesa non uccide nessuno – per essere bruciati sul rogo. La stessa sorte toccava a chi, riconciliato in un "atto di fede", ricadeva poi negli stessi errori. Dichiarato relapso, veniva bruciato immancabilmente. Se si era pentito, gli si faceva la grazia di strozzarlo prima di essere bruciato.
Anche i morti venivano bruciati. Per accusa di eresia, l’Inquisizione faceva riesumare i cadaveri per bruciarli pubblicamente (l’anticipazione della odierna "cremazione"). I contumaci, invece, venivano bruciati in statua. In attesa di poterli bruciare in carne ed ossa, si poneva sul rogo un simulacro di cartapesta. Durante la sua lunga attività, dalla fine del Quattrocento alla fine del Settecento, l’Inquisizione organizzò centinaia di autos da fé, tutti di inaudita crudeltà. Alcuni di essi, per la qualità dei condannati e per la grandiosità del cerimoniale, restarono fissati nei diari dei contemporanei e in pubblicazioni a stampa. Il più famoso è certamente l’auto da fé tenutosi il 6 aprile 1724, in cui, tra altri ventisei penitenti condannati a pene varie, furono bruciati vivi fra Romualdo e suor Geltrude. Il primo, a parere di molti, era poco sano di mente e mormorava a se stesso: "Fra Romualdo sta’ fermo"; l’altra era una povera suora che diceva agli inquisitori: "Io son donna, voi siete teologi; non posso mettermi a contendere con voi".
Nel 1790, il mai troppo apprezzato viceré, marchese Domenico Caracciolo, aboliva il feroce tribunale dell’Inquisizione, nemico dell’umanità, della tolleranza e del cristianesimo. Purtroppo, i siciliani dimostrarono di essere diseducati ad apprezzare questi valori. Agli atti della storia restano per sempre due terribili documenti: la "Supplica del Senato di Palermo perché il Re non permetta di abolire l’Inquisizione" e la "Supplica della Deputazione del Regno a S.M. per non abolirsi il Tribunale del S. Offizio". La Deputazione del Regno era la massima espressione del Parlamento siciliano. Rappresentava, o avrebbe dovuto rappresentare, tutti i siciliani.
Creato da Federico II nel XII secolo per combattere sette considerate eretiche come i valdesi, i paterini e i circoncisi, il Tribunale dell'Inquisizione in Sicilia iniziò a far sentire la sua tragica presenza a partire dal 1487: da questa data in poi, infatti, il famoso Torquemada inviò nell'Isola inquisitori dalla Spagna e rese il Tribunale una vera e propria istituzione la cui sede ufficiale divenne Palazzo Chiaramonte a Palermo. Così l'Inquisizione divenne presto per i re spagnoli uno degli strumenti più efficaci per tenere in soggezione l'intera Isola grazie anche alla nobiltà siciliana che, contando numerosi suoi membri tra i funzionari laici del Tribunale, collaborava attivamente, in cambio di numerosi privilegi, a preservare l'ortodossia politica e religiosa.