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Giovedì, 23 Agosto 2012 13:58

Il tribunale dell'inquisizione (1487-1782)

L’INQUISIZIONE fu introdotta nell’Isola prima del 1224 dall’imperatore Federico II, il quale, con la costituzione "Inconsutilem tunicam" emanata a Palermo, ordinò che tutti gli eretici e gli Ebrei dovessero pagare una tassa a suffragio degli inquisitori di fede preposti al loro controllo. L’istituzione ufficiale del Tribunale dell’Inquisizione in Sicilia fu deliberata nel 1487 con Ferdinando II il Cattolico, il quale originariamente delegò a giudici i Padri Domenicani. Il 20 gennaio 1513 il compito fu affidato ai religiosi Regolari, che si insediarono nella nuova e definitiva sede del famoso palazzo dello Steri, noto pure con l’appellativo di "regium hospicium", che fu la dimora privata di Manfredi Chiaramonte.
L’Inquisizione, "invadendo progressivamente l’intero organismo costituzionale dello Stato, si mostrò arma utilissima dell’assolutismo spagnolo".

Con decreto regio del 6 marzo 1782 il sovrano Ferdinando III di Sicilia, "seguendo i saggi consigli e forse anche per le incessanti sollecitazioni del viceré, marchese Domenico Caracciolo, avverso ad ogni privilegio ed abuso ecclesiastico, e per il conforme parere espresso dal siciliano, primo suo ministro di Stato, marchese della Sambuca", ordinava l’abolizione dell’Inquisizione nell’Isola.
Torture, supplizi e feroci esecuzioni con scempio dei cadaveri, per secoli sono i normali mezzi con cui la giustizia, dovunque nel mondo, persegue non soltanto la punizione dei delitti, ma l’obiettivo di incutere terrore a chi al delitto si accinge, con la esemplarità delle esecuzioni. Esemplarità che a Palermo si credeva di conseguire col barbaro uso di appendere le membra squarciate dei condannati a degli uncini di ferro di una forca, eretti nella località dello Sperone (da cui ne prende il nome), nel quartiere Settecannoli, posta oltre la borgata di Romagnolo, all’ingresso della città, lato mare. Nel 1650, vi vengono esposti i quarti del procuratore Lorenzo Potamia, coinvolto in una congiura capeggiata dal conte di Mazzarino. Tale barbaro spettacolo fu abolito dal viceré d’Aquino, principe di Caramanico, nel 1783 e la forca fu distrutta. Ma la fantasia dei giudici non ha limiti: la pubblicità dell’esecuzione può essere assicurata anche da altri procedimenti, come, ad esempio, staccando dal tronco la testa del condannato e piantandola "ad un chiodo su d’una trave nella piazza Vigliena", come accade a Giuseppe Pesce, giureconsulto, "famoso per eloquenza", coinvolto nella stessa trama del Potamia, o portandola in giro per la città infissa ad una picca (lunga asta di legno munita di una punta di ferro).

La Sicilia, rispetto alle altre parti del mondo, non fa eccezione; ha soltanto una varietà infinita di autorità che hanno il potere di infliggere incondizionatamente pene: la giustizia vicereale, quella dei tanti fori privilegiati tra i quali spicca per ferocia quello dell’Inquisizione, nonché le corti di giustizia feudali dei baroni. Persino i governatori del Monte di Pietà di Palermo sono autorizzati a punire i reati contro il Monte "con pubbliche et esemplare pene, o privatione, tratti di corda o frusta et alli nobili pene pecuniarie ad essi governatori benviste".
Ognuna di queste giustizie esercita, senza eccessive formalità, processi più o meno regolari e infligge pene. I controlli non esistono o quasi; i ricorsi ai gradi superiori sono possibili soltanto a soggetti che dispongono di denaro con cui pagare l’assistenza di un buon giureconsulto. Tutti gli altri subiscono le decisioni giudiziarie che non raramente sono poco più che soprusi e violenze, legalizzate da una parvenza di giustizia e da consuetudini regolari.
Ma, ancor prima di dare inizio ad una serie di disumane torture, per estorcere delle false confessioni che legalizzassero la condanna, si procedeva all’ultimo interrogatorio dell’imputato, quello che veniva chiamato " l’interrogatorio sulla selletta ". La sgabello di legno che veniva posto al centro dell’aula selletta era semplicemente uno e sul quale sedeva l’imputato. Si pensava che, solo, davanti ai giudici in toga, ormai informati in modo completo su tutti gli atti del processo, egli sarebbe rimasto impressionato ed avrebbe senz’altro rivelato tutto ciò che aveva potuto dissimulare nel corso del dibattimento. E’ ovvio che il grande inquisitore tempestava di domande l’imputato e cercava di confonderlo, mettendo in rilievo le sue eventuali contraddizioni e le testimonianze che erano contrarie alle sue affermazioni, e, privo dell’aiuto di un avvocato, era particolarmente vulnerabile, e come tale vittima già destinata al rogo.

La tortura è un imprescindibile meccanismo procedurale; in una logica per noi oggi incomprensibile, ma valida fino al Settecento ed oltre, "la confessione stragiudiziale, la quale purtroppo, allora, prendeva la forma di confessione sotto la tortura". Tratti di corda, frustate e anni di remo nelle galere vengono inflitti anche per delle semplici contravvenzioni. I capitoli della città di Palermo ordinano che "siano in pena della frusta, e di quattro tratti di corda" coloro che faranno cattivo uso delle acque comunali per cui hanno ottenuto la concessione; che i cassieri della "Tavola di Palermo" (una banca pubblica istituita nel 1552-53) che non registrino subito le somme incassate "siano in pena la prima volta di pagar di proprio, la somma ritenuta, e di perdere il salario di un anno; e la seconda volta d’anni tre di galea"; che chi rompe i fanali dell’illuminazione cittadina (siamo nel 1748) subisca la "pena della suddetta frusta con venti cazzottate, e di anno uno di carcere"; che chi "abbia avuto l’ardimento di far mancare, o seccare, scorticare, e recidere gli alberi" piantati nelle strade fuori porta, subisca "la pena di onze ducento se saranno nobili, e di quattro tratti di corda ed anno uno di carcere se saranno ignobili".

Nel caso di un nobile insolvente, in Sicilia, Ministri Delegati e Procuratori dei creditori, nominati di volta in volta, facevano stimarne i beni più adatti alla vendita, ne pubblicavano il prezzo ed erano autorizzati a venderli, come se tale vendita procedesse dalla potestà sovrana del Re. All’acquirente consegnavano copia del contratto munito di "Verbo Regio", che toglieva al nobile il possesso ed ogni possibilità di rivendicazione, inoltre gli davano lo "Scudo di Perpetua Salvaguardia" contro pretesi diritti di altri.

Non ci sono limiti, invece, alle pene comminate per reati maggiori. Il viceré de Vega costumava, anche per lievi colpe, "di dare la tortura anche a’ nobili, e […] spesse volte li facea battere con lo staffile. Per delitti di menoma conseguenza non esitava punto di fare inchiodare una mano al reo, a’ bestemmiatori poi faceva delle volte forare la lingua, e spesso tagliare".

L’Inquisizione, questo tremendo istituto, costituito per il perseguimento della haeretica pravitas, fu in realtà, attraverso la feroce repressione delle eresie vere o presunte (e l’incameramento dei beni dei condannati), strumento dell’assolutismo regio, tant’è che gli inquisitori poterono sempre, nei confronti del sovrano, rivendicare il merito di "tener saldo il regno", e insomma di garantire alla monarchia di Spagna l’ordine statale e sociale in una regione "piena di infedeli": giudei, maomettani, luterani e in genere seguaci di correnti religiose eterodosse.
I pericoli, in verità, erano assai minori di quelli prospettati, né è da credersi a una Sicilia infestata da fermenti ereticali, come l’abbondanza dei giudizi e il gran numero di roghi accesi a consumare atrocemente i destini delle infelici vittime vorrebbero farci credere; valga al riguardo la testimonianza del letterato Argisto Giuffredi, che, scrivendo verso il 1585 gli "Avvenimenti cristiani" ai suoi figli, osservava che "bastava poco per essere accusati di eresia".

Bastava poco per l’accusa e poco passava fra l’accusa e la condanna, ché, nel fanatico zelo dei giudici, nella sommarietà e nella violenza delle procedure, esperite senza rispetto dei diritti della difesa e al di fuori da ogni garanzia canonica, al disgraziato non era dato scampo una volta finito nel torchio del S. Uffizio: perciò ripetutamente il Parlamento ebbe a reclamare presso il sovrano contro gli abusi dell’Inquisizione, e sempre da Madrid le richieste vennero eluse e anzi i privilegi del tribunale accresciuti; non riuscirono nemmeno i viceré, del resto, a contrastare le esorbitanze degli inquisitori, coi quali più volte vennero a contese di giurisdizione e persino alle mani, ché in fondo quell’Inquisizione ben pasciuta, colma di "familiari laici", consultori e delatori, ben faceva il giuoco della Corona, alla quale assicurava il controllo politico del viceré e della burocrazia. Questo istituto era divenuto nel tempo fonte di prestigio e di notevoli vantaggi. Chiunque infatti avesse il diritto di portare il distintivo con la croce e i gigli dell’inquisizione era esente da tasse, non poteva essere giudicato dai tribunali ordinari ed era autorizzato a portare con sé armi. Inoltre, poiché i beni degli inquisiti venivano confiscati (e un decimo del loro valore diventava proprietà del delatore), il miraggio di facili guadagni induceva a ingiuste accuse. Certamente le torture e i roghi a S. Erasmo non sempre erano giustificati dalla difesa della religione, e il cerimoniale che li accompagnava rimane una vergognosa pagina di inciviltà nella storia. E viene spontanea la domanda: quante persone, dal 1487 al 1782, si trovarono, in Sicilia, ad avere dolorosamente a che fare con l’Inquisizione? Sappiamo per certo che almeno duecentotrentaquattro furono i rilasciati al braccio secolare per la suprema pena del rogo. Ma quanti sono stati gli inquisiti, i condannati a pene minori? E quanti tra loro i poeti, i filosofi, gli artisti?
Nel mese di luglio del 1780 il re Ferdinando III nominò viceré di Sicilia il marchese di Villamaina, Domenico Caracciolo, Ambasciatore a Parigi, che giunse a Palermo il 14 ottobre 1781, iniziando per l’isola le riforme che lo resero famoso, e prima fra tutte la soppressione del famigerato Tribunale dell’Inquisizione; ed il popolo esultò facendo pubbliche feste, mentre l’aristocrazia protestava, per fortuna inutilmente, presso il re di Spagna. Nelle carceri del palazzo Steri, dove erano le sinistre prigioni del S. Uffizio, erano ancora rinchiuse tre vecchie condannate per stregoneria. L’anno successivo, per ordine dell’ultimo inquisitore, tutti i documenti del Tribunale vennero bruciati. Le fiamme durarono un giorno e una notte e di tutta la secolare attività non restò traccia per la storia, tranne che in quelle carte della "Inquisición de Palermo o Sicilia", che si conservano nell’Archivio Nazionale di Madrid, dove ci si auspica che qualche storico si decida a studiarle, fornendoci un rapporto più completo di un pietoso dramma umano.
Così, per circa tre secoli, dalla sua istituzione nel 1487 alla definitiva eliminazione, avvenuta il 27 marzo1782, la Sicilia si pianse il S. Uffizio, con corale approvazione e partecipazione di quasi tutta la classe dei nobili, non escluso il marchese di Villabianca.

Si cominciò in sordina, nello stesso anno 1487, con un delegato senza stabile dimora, il domenicano Antonio La Pegna, il quale fu così zelante che ad agosto aveva già acceso il primo rogo: toccò ad Eulalia Tamarit di Saragozza, colpevole di essere ebrea. Fino al 1513, quando il Tribunale divenne permanente, utilizzando come carceri segrete per rinchiudervi i penitenziati alcune stanze del fabbricato che il S. Uffizio, nel primo Seicento, aggiunse allo Hosterium dei Chiaramonte (palazzo "Steri", divenuto sede del Tribunale dell’Inquisizione nel 1601, fino alla sua soppressione nel 1782) vennero condannati altri 27 poveri infelici; poi, nell’anno della stabilizzazione dell’organo, quasi a celebrare l’evento, d’un colpo solo i roghi furono 35, e non tutti di vivi, poiché tanto era il furore della vendetta che fra le fiamme platealmente furono spediti persino i cadaveri di coloro che avevano fatto la scortesia, nel frattempo, di morire: furono disseppelliti e arsi a pubblico esempio. La serie dei sacrifici umani finisce nel 1732 con il curiale Antonio Canzoneri da Ciminna. Questi, avendo abiurato, viene esonerato dalla condanna a morte, dall’essere arso vivo, ma destinato a vita alle carceri del Sant’Uffizio. Di conseguenza, il reo confesso, nella notte del 1° ottobre 1731, comincerà "a vomitare ingiurie e insolenze e bestemmie contro Dio e i Santi e a professare eresie". "Meglio morire che vivere tutta la vita in quel carcere" – gli fa dire Luigi Natoli – "in quel carcere, del resto, oscuro come una tomba". Lì dove Giuseppe Pitrè troverà scritto (non importa da chi): "Nun ci nd’è no scuntenti comu mia: mortu, e no pozzu la vita finiri".

Giovedì, 23 Agosto 2012 13:55

Il "teatro" dell'inquisizione

Festa grande a Palermo il 5 aprile 1724, quando fu allestito un "teatro" nel piano della Cattedrale: era alto "sette palmi (…) lungo canne 21,4 e largo canne 14" e composto da circa dieci palchi. Alla destra stavano i "Qualificatori", i "Consultori" e i rappresentanti della Corte Pretoriana; alla sinistra i "Secretari", gli "Uffiziali" ed i rappresentanti del Senato; al centro veniva allestito il palco dei condannati, coperto di "panni neri". Il "teatro" veniva corredato di altri tre palchi ubicati ai lati "dell’altare": uno era destinato alle dame che assistevano bramose di emozioni al lugubre spettacolo, un altro era occupato dai "musici" e l’ultimo veniva assegnato ai confratelli della Compagnia dell’Assunta. Questi palchi erano "guardati per ogni parte da cancelli di legno"; sotto al palco si apriva una "secreta scala" che conduceva a "certe piccole basse camerette" dove i "fratelli" dell’Assunta, a turno, andavano a riposarsi.Anche i confratelli della Compagnia dei Bianchi (fondata nel 1541 dal viceré di Sicilia conte di S. Stefano), tre giorni prima dell’esecuzione capitale, assistevano insieme al sacerdote i condannati, li facevano confessare e li accompagnavano al patibolo.

I rei stavano sopra alcuni gradini di legno; i meno colpevoli vestiti di sacco nero, quelli imputati di gravi reati vestiti del sacco nero e giallo, dipinto con repellenti figure. I condannati si facevano entrare nello steccato, al centro dei palchi stracolmi di spettatori di tutti i ceti, dove in mezzo erano posti due alti pali di ferro, ai cui piedi s’accumulavano le cataste della legna. Ai rei, in piedi sulla carretta, veniva letta la sentenza del S. Uffizio e quella della corte Capitanale, e la condanna capitale ad essere strozzati e poi bruciati, o direttamente arsi vivi. Le vittime, in coppia, tolte dal carro, venivano poste sulle cataste, e ciascuna incatenata al proprio palo. Il boia passava un nodo scorsoio intorno al collo di colui che avrebbe "beneficiato" della minor sofferenza con la concessione dello "strangolamento" al palo, e poi bruciato, appiccando il fuoco alle pire. Le fiamme avevano immediata presa sul sacco, unto di pece, lo avviluppavano e gli ardevano i capelli e la barba, sollevando una grande nube di fumo, mentre quei poveri disgraziati lanciavano delle grida disumane. Sulla pira le carni crepitavano, soffriggevano, spandevano intorno un odore nauseabondo… Le fiamme duravano più ore, fino all’alba; e di quei corpi non rimanevano che poche ossa nere, carbonizzate.

Secondo quanto riferisce Giuseppe Pitrè, il popolo aveva adottato una terribile frase, per preannunciare una grave minaccia, perché riportava subito alla mente le atrocità del passato, per il chiaro riferimento che si faceva, nel giorno delle esecuzioni, della fastosa e numerosa cavalcata di magnati, patrizi e nobili dei più alti ordini della città e di tutti gli officiali con essi della corte del Tribunale, oltre a tanti preti e monaci, essendo consultori e qualificatori del S. Uffizio, adorni della croce in petto e di un’altra a ricamo grande nelle cappe, donde si diceva: "Ti fazzu vidiri lu Sant’Uffiziu a cavaddu".
Il Pitrè trattò l'argomento di queste mostruose atrocità nella sua nota pubblicazione: "Del Sant'Uffizio a Palermo", al capitolo: "Il Tribunale dell'Inquisizione a lavoro", sotto l'aspetto folcloristico, con dovizia di particolari, dando una colorita descrizione dello scenario che si svolgeva in città, ogni volta che i condannati, con sentenza passata in giudicato, venivano mandati al rogo, con gran sollazzo della gente che vi accorreva numerosa: "Squillano le trombe, e tutto il popolo, preavvisato dai tamburi, esultando corre allo spettacolo. Preceduto dal vessillo della Santa Inquisizione, splendente della bellezza delle stelle e del sole, esce dal Palazzo del S. Uffizio il festivo corteo. Per le strade la gente schiamazza e commenta". Non si pensa che degli esseri umani, spesso innocenti, di lì a poco saranno arsi sul rogo. I Romani dicevano: "Mors tua vita mea!", i Palermitani adottavano l'altra frase, pure significativa: "Menu mali c'un attocca a mia!" Loro amano la vita, scordano facilmente le disgrazie davanti ai divertimenti, e questo chi li governa lo sa bene, ingannandoli per secoli con certe pietanze all'agrodolce. "La fama di tanto trionfo nel trofeo della fede insigne, con liete acclamazioni condotto e celebrato, vola per le bocche e le orecchie di tutti, così che nessuno, di qualunque condizione, sa trattenersi dal partecipare a tanto gaudio. Con cetere, cimbali e sistri celebrano i cantori la Santa Croce". Applaudono e gridano bene e prosperità al passaggio del personaggio che incute paura solamente a pronunciare il suo nome, a colui che in terra rappresenta l'Essere Assoluto, che decide della vita e della morte dei comuni mortali: "Ecco il sommo, l’ottimo, il massimo Inquisitore e Giudice, in cui si accentra ogni potestà del Cielo e della terra e che, secondo la divina Scrittura, sorge e primo giudica la causa di Dio". A volte si stenta a credere che realmente sia esistito un periodo in cui, sotto l'insegna della Santa Croce, siano stati commessi delitti contro i presunti "nemici della Fede, dando alla Chiesa un fulgore splendidissimo".
Alla fine della trionfale cavalcata per la città, il corteo giunge sul luogo della rappresentazione, dove la Gran Corte al completo si asside. "Alla loro vista paventano, sopraffatti da pensieri, i rei". Da questo momento si dà inizio allo spettacolo vero e proprio, a cui il popolo anela, aspettando impaziente fin dalle prime luci del mattino. Letti gli atti di ciascun reo, i "reconciliandi" si ammettono al perdono e alla penitenza: "Ginocchioni innanzi gli Inquisitori, ricevono accesa la candela che hanno portata spenta. Quindi, secondo la natura dei delitti, si fa l’abiura e si percuotono lievemente con la verga, e sono, per siffatta percussione, ammoniti i rei di non più ricadere nei delitti trascorsi. Finalmente, per l’aspersione dell’acqua santa, vengono cacciati i demoni, alla suggestione dei quali essi soggiacquero".

Quale sorte è riservata invece a coloro che si ostinano fino all'ultimo di rientrare nelle file del buon cristiano, obbediente alle leggi terrene e divine? "Costoro, coperti d’una tetra, fetida ed orribile veste, serpeggiata tutta di fiamme infernali, vengono tradotti allo spettacolo. Terminata la lettura del processo, questi empi vengono consegnati al braccio secolare per essere ridotti in cenere". A volte la scena che si descrive, anche a distanza di secoli, è così raccapricciante che il lettore è preso da certa rabbia per non poter intervenire in aiuto di quei poveri infelici, abbandonati a se stessi, senza difesa: "Tra i carboni che bruciano, le cataste di legna, le cruenti fiamme dell’accesa fornace ed i crepitanti fuochi, perseverano impavidi, per la salute delle loro anime, i sacri padri, e con parole, esempi ed orazioni anelano alla loro conversione; né li lasciano finché non abbiano essi esalato l’ultimo respiro. Che se si convertono, fatta la confessione sacramentale e ricevuta l’assoluzione, vengono strangolati e poi bruciati; e se impenitenti, senz’altro inceneriti tra le stridenti fiamme".

Ogni commento è vano sia per il mondo di ieri che per quello di oggi, perché nessuno è ancora riuscito a scovare ed a sopprimere le tre diaboliche sorelle, streghe del male: l'invidia, la malizia e la vendetta!

La Chiesa siciliana mostrò un certo ritardo ad allinearsi con le posizioni dei domenicani tedeschi che elaborarono il Malleus. Mentre, da una parte, l'Inquisizione spagnola in Sicilia tentava di offrire i metodi su come affrontare il problema della stregoneria, dall'altra, il prelato siracusano si limitava ad affermare che «Peccano tutti quelli che credono alli sogni et alli incanti, alli idovini, alle fatucchiere, a stregarie, a giorni, ad hore, a tempi, a punti, a cornacchie, a civette». La lettura del Malleus non aveva assolutamente influenzato il loro punto di vista né la loro formazione. Altri vescovi mostrarono lo stesso atteggiamento di freddezza nei riguerdi del Malleus, tra i quali il vescovo di Patti, di Monreale, di mazara e di Messina.

La posizione siciliana, trovava comunque un riscontro in un atteggiamento già diffuso in quasi tutta la penisola, per quanto non mancassero prelati fedeli alla missione della Caccia come voleva il Malleus.

Fonte: Francesco Renda, «L'Inquisizione in Sicilia. I fatti. Le persone.», Palermo, Sellerio, 1997.

Giovedì, 23 Agosto 2012 13:53

L'inquisizione in Sicilia

L'inquisizione in Sicilia coprì un arco di tempo di ben tre secoli. A causa delle violente trasformazioni che si susseguirono in tutta Europa tra il '500 e il '700, anche l'Inquisizione stessa subì dei radicali cambiamenti. Così non esiste una sola inquisizione, sul piano storico, perché c'è stata un'inquisizione medievale e una moderna, così come non esiste una sola inquisizione sul piano istituzionale, perchè nell'inquisizione moderna vi sono l'inquisizione romana, spagnola e portoghese che hanno come riferimento i governi dei rispettivi paesi.
E la situazione non è diversa dal punto di vista geografico. La Sicilia, che oggi è Italia, dal '400 fino a gran parte del '700 era Italia per geografia, lingua, cultura e religione, ma era Spagna sotto il profilo politico e militare (nella stessa situazione si trovava la Sardegna). Anche Napoli era un dominio spagnolo, ma questo non impedì di rifiutare gli ordinamenti spagnoli, cosa che non fecero, invece, Sicilia e Sardegna.

In Sicilia, l'Inquisizione fu gestita da inquisitori inviati direttamente dalla Spagna, come sottodelegati dell'inquisitore generale. Poiché il potere di inquisire era di esclusiva spettanza papale, l'inquisitore generale doveva essere un magistrato ecclesiastico nominato dal papa. Ma in realtà a sceglierlo non era il papa, ma il re, quindi ne seguiva che egli era nello stesso tempo delegato del papa, consigliere della corona, membro del consiglio di stato e ministro presidente del Consiglio della Suprema e Generale Inquisizione. L'inquisizione spagnola, così, sovrastò completamente l'amministrazione pubblica isolana e le sue decisioni divenivano operative ipso facto, senza che nessuno, nemmeno il viceré, potesse opporre riserva. Dunque, in Sicilia, le conseguenze dell'Inquisizione furono molto più sentite rispetto ad altre città del nord quali MIlano, Venezia, Firenze, Torino... In Sicilia il Santo Ufficio fu introdotto nel 1487 e abolito nel 1782 e nel corso di questi tre secoli fu prima spagnolo, poi sabaudo, austriaco e infine borbonico. Il Santo Ufficio, così com'era strutturato fu l'organo più perfetto ed efficiente del moderno stato assoluto spagnolo, ma fuori dalla penisola iberica non ottenne effetti omologhi. Nei domini e nelle colonie, portava ad esaltare ed imporre la preminenza spagnola mortificando e svilendo le libertà e le identità storico-culturali dei popoli oppressi. L'Inquisizione spagnola in Sicilia rimase quindi un'istituzione sempre straniera e non ebbe una notevole influenza religiosa e politica, ma contribuì solo a reprimere e distruggere la presenza ebraica, la protestante, la mussulmana e cancellò tutte le forme di libertà di pensiero. Alla ricchezza del pluralismo impose il conformismo e perseguitò la superstizione, il sortilegio, la pratica delle scenze occulte, ma non introdusse un modo nuovo di sentire la cristianità.

Fonte: Francesco Renda, «L'Inquisizione in Sicilia. I fatti. Le persone.», Palermo, Sellerio, 1997.

Domenica, 12 Agosto 2012 15:10

Prospero Intorcetta, In-Tu-Tsè Chio-ssé

Circa 300 anni fa moriva il personaggio piazzese Prospero Intorcetta, scienziato, umanista, uomo di fede. È doveroso fare qualche cenno a questo grande e singolare personaggio, la cui coraggiosa figura troneggia nel patrimonio di tutta la cultura essendo stato il primo a divulgare in Europa i testi di Confucio, "il Santo perfettissimo".

Chiunque si sarebbe scoraggiato di fronte alle difficoltà incontrate e alle sofferenze patite in tanti anni trascorsi in un ostile e lontano paese quale era la Cina del 1656, anno in cui il gesuita piazzese Prospero Intorcetta venne inviato in missione a Macao insieme ad altri sedici confratelli. Per la veri-tà la missione di Intorcetta in Cina, voluta dai padri della Compagnia di Gesù, non cominciò male, anzi la benevolenza, la liberalità e la correttezza dell'imperatore Shun-Chih inaugurò un periodo di tranquillità per i nostri missionari i quali peraltro approdavano nell'impero del Drago portando seco conoscenze scientifiche di grande rilievo soprattutto nel campo della matematica, della geometria, della fisica, dell'astronomia, dell'arte nautica e delle scienze naturali.

Le conoscenze del nostro In-torcetta e i suoi modi umili e intraprendenti a un tempo, solleticarono a tal punto l'interesse dei mandarini di corte e dello stesso imperatore che attorno a lui si creò una vasta curiosità intellettuale e un prestigio tali da consentirgli ospitalità e ampia libertà di movimento a corte con la possibilità negli anni di dedicarsi allo studio dei costumi cinesi e alla successiva divulgazione di quella fede cristiana portata dall'occidente. Non fu uno scandalo, per l'imperatore cinese Shun-Chih, la missio-ne di Intorcetta, tanto che, l'avvento dei gesuiti in quel paese, permise la costruzione di centinaia di chiese e residenze cristiane e il battesimo di molte centinaia di migliaia di cinesi che accorrevano da lui per i suoi ammaestramenti scientifici.
Prospero Intorcetta era nato a Piazza nel 1625, ma nella sua prima giovinezza credette di avere la vocazione dell'avvocato, tuttavia ci fu un momento in cui ebbe il sopravvento una scelta di fede e così, approdato alla sede della Compagnia di Gesù a Messina, per studiare la sacra teologia, l'ardimentoso trentenne fu proposto per andare in missione nelle lontane e misteriose terre dell'estremo oriente. Macao era allora un posto di frontiera essendo colonia portoghese alle porte dell'impero cinese. Un breve soggiorno di Prospero Intorcetta servì per familiarizzare con la storia e i costumi cinesi, mentre nel 1659 entrava nella provincia di Kiang-si per assumere la cura della co-munità di Kien. Lì assunse il nome cinese di In-Tu-Tsè Chio-ssé, che significa Intorcetta il Chiazze-se, e intraprese lo studio delle opere di Confucio. La sapienza del grande filosofo cinese lo affascinò a tal punto che Intorcetta intuì come "la dottrina del mezzo" potesse abbracciare le visioni cristiane e viceversa. Fu lui stesso a intagliare, con incommensurabile pazienza, le tavolette coi caratteri xi-lografici e stampare la "Sapientia sinica" nel 1662 che comprende i Dialoghi con Yu, La Grande scienza e la "Sinarum scientia politico-moralis" dove è compreso il terzo libro del Maestro, appunto il Chung Yung (La dottrina del mezzo).
Purtroppo, alla morte del buon imperatore Shun-Chih la situazione mutò presto a Pechino e nell'impero di Cina e fu facile la prima persecuzione contro i nostri missionari i quali furono arre-stati e torturati con l'accusa di eresia e tradimento. Intorcetta insieme con altri 24 religiosi andò in esilio nella lontana Canton mediante sei mesi di navigazione fluviale e lì condusse un'esistenza di stenti e di dolore.
La descrizione di questo stato di estrema sofferenza fu lo stesso Intorcetta a riferirla davanti al Santo Uffizio leggendo la relazione "Compendiosa narrazione dello stato della missione cinese" nel 1671 dopo quindici anni di missione nel misterioso paese d'oriente. Riferì pure di alcuni portentosi accadimenti verificatisi in Cina durante la persecuzione tra il 1664 e il 1668 e che potrebbero dive-nire ghiotti bocconcini per qualche studioso dei nostri giorni di fenomeni arcani. Come non cogliere infatti il mistero nel racconto di In-Tu-Tsè Chio-ssé che aveva visto l'edificio imperiale di Pechino incendiato da un globo di fuoco proveniente dal cielo? Oppure di una pioggia senza che vi fosse alcuna nube nell'aria? O di fiumi di sangue che scorrevano per tre giorni? E come non rimanere allibiti al racconto di ciò che avvenne nella città di Vu-ngan-hien dove, nella sesta luna cinese, piombò dal cielo un immenso e spaventoso dragone di oltre trecento metri di lunghezza?
Prospero Intorcetta partì dalla Cina nel 1668 e il suo viaggio verso l'Italia durò oltre due anni e mezzo, quando ormai le persecuzioni erano al crepuscolo. Egli, dopo la relazione romana fatta agli Eminentissimi della Congregazione de Propaganda Fide, venne in Sicilia e rivide la sua casa natale a Piazza. Un suo ritratto, che è la copia di un altro grande ritratto che si trova alla Biblioteca comu-nale di Palermo, fa bella mostra di sé nella Sala delle Luci del Municipio di Piazza Armerina: Pro-spero Intorcetta indossa un vestito da mandarino e reca in mano un bel ventaglio con disegni e ideo-grammi. Lo sguardo è intriso di saggezza e anche di nostalgia per l'oriente. In-Tu-Tsè Chio-ssé ri-prese la strada della Cina e si stabilì ad Hang-Tchou, capitale della provincia dello Tsè-Kiang dove si spense all'età di settant'anni nel 1696. Poco più, appunto, di trecento anni fa.

Domenica, 12 Agosto 2012 15:09

Gen. Antonio Cascino

Antonino Cascino, discendente di una antica famiglia ghibellina, nacque a Piazza Armerina il 14 Settembre 1862. A quattordici anni, finito il primo grado di studi, si trasferì a Catania per conseguire il diploma di secondo livello; a diciassette anni, superati gli esami d’ammissione entrò all’Accademia di Artiglieria di Torino. Iniziò così la sua carriera militare. Dopo una breve gavetta gli fu affidato il compito di addestrare le reclute dell’esercito. Istruire reclute, trasformarle in bravi soldati e restituirle al Paese come onesti cittadini era una mansione che lo entusiasmava a tal punto che dedicò molto tempo nel cercare nuovi e più efficaci metodi di addestramento.

Antonino Cascino, discendente di una antica famiglia ghibellina, nacque a Piazza Armerina il 14 Settembre 1862. A quattordici anni, finito il primo grado di studi, si trasferì a Catania per conseguire il diploma di secondo livello; a diciassette anni, superati gli esami d’ammissione entrò all’Accademia di Artiglieria di Torino. Iniziò così la sua carriera militare. Dopo una breve gavetta gli fu affidato il compito di addestrare le reclute dell’esercito. Istruire reclute, trasformarle in bravi soldati e restituirle al Paese come onesti cittadini era una mansione che lo entusiasmava a tal punto che dedicò molto tempo nel cercare nuovi e più efficaci metodi di addestramento.
Le sue autorevoli e qualificate pubblicazioni a sfondo bellico lo aiutarono a conseguire una cattedra all’Accademia Militare di Modena, città nella quale, in quegli anni, conobbe Pia Taccoli che sposò nel 1899. Fu proprio a Modena che si affermò il suo lato di “educatore di anime”, come sottolineano la stima e il rispetto che le reclute e i colleghi gli riconoscevano.
Le sue successive pubblicazioni unite all’eccezionale competenza tecnica lo fecero entrare di diritto nell’elite dei grandi luminari dell’esercito.
Con l’inizio della prima guerra mondiale il Gen. Antonio Cascino diede corpo a tutte le sue esperienze strategiche e tecniche per compiere assieme ai suoi uomini eroiche imprese che gli valsero l’ammirazione da parte di tutto l’ambiente marziale.
Il 15 settembre del 1917 una grossa scheggia lo colpisce ad una gamba durante un assalto; lui incurante della ferita organizza i soccorsi per i malati più gravi. Alla prima postazione medica gli consigliano il ricovero in ospedale ma lui non accetta di lasciare il posto di comando durante i continui attacchi da parte degli austriaci.  Quando, due giorni dopo, viene trasferito in un nosocomio è ormai troppo tardi, così dopo 12 giorni di agonia spira.

Alla notizia della sua morte la sua brigata Avellino sprofondò nella commozione e nella sconforto.
Al generale fu conferita alla memoria la medaglia d’oro al Valore Militare e a guerra finita le sue spoglie furono riposte al Pantheon di Palermo dove tuttora sono custodite accanto ai più celebri figli della Sicilia.

Domenica, 12 Agosto 2012 15:09

Antonio il Verso, madrigalista dimenticato

È pur vero che nella propria patria i grandi uomini, siano profeti o artisti, vengono regolarmente disprezzati da vivi e dimenticati da morti. Quella della dimenticanza sembra proprio una ineluttabile regola umana. Ma se l'ingratitudine ci è congeniale, tuttavia dovremmo accollarcene sinceramente la colpa, poiché l'esistenza dell'uomo continua a perpetuarsi nei secoli e nei millenni, non solo per le sue capacità biologiche, ma anche per la sua intelligenza e cultura, per la sua volontà ferrea di archiviare esperienze e vivacizzare memorie.

La nostra città vanta grandi uomini e creature geniali che hanno fatto della loro esistenza un inno al sapere, all'arte, alla storia, ma questa città sa dimenticarli in fretta e non ama scavare nel suo passato se non per gonfiarsi il petto di accadimenti più folcloristici o mitici che reali. Un grande piazzese del XVI sec. viene celebrato e ricordato altrove, tranne che a Piazza. Si tratta di uno dei suoi figli migliori, Antonio il Verso, laico, importantissimo e prolifico musicista rinascimentale, maestro di tutta una generazione di compositori, era il principale rappresentante della cosiddetta Scuola Musicale Piazzese che già era fiorente nella prima metà del sec. XVI, ad opera di altri musicisti piazzesi come Riccardo La Monica, Michele Malerba e Antonio Sanso.

La nostra città in quel periodo aureo e fecondo rappresentava un vero crogiolo di cultura: poesia e musica erano praticate sia dalla nobiltà che dalla borghesia e il popolo non disdegnava di apprezzare il canto e le composizioni strumentali. Ma, si sa, il rinascimento era l’umanesimo e questo stava a significare infarcimento e risveglio di ogni forma di cultura che potesse elevare e arricchire l’uomo.

Antonio il Verso fu dunque, storico, (scrisse la Historia della città di Piazza) letterato, poeta, ma soprattutto era insigne musicista che, avendo frequentato il maestro Pietro Vinci da Nicosia e le fucine artistiche palermitane e poi veneziane, diede un grande contributo sia alla musica sacra che a quella polifonica profana. In Italia allora dominavano il panorama musicale il veneziano Giovanni Gabrieli, il cremonese Claudio Monteverdi, il romano Pierluigi da Palestrina. Il nostro Antonio Verso fu il vero continuatore in Sicilia della scuola veneziana e certo la figura più rappresentativa di tutta la scuola polifonica siciliana. Dell’intero corpus versiano (su trentanove opere ventitré sono libri di madrigali e di questi ultimi il Verso ne compose oltre cinquecento) ci rimangono diciassette raccolte. Recenti e autorevoli studi realizzati per iniziativa dell’Istituto di Storia della Musica dell’Università di Palermo diretta da Paolo Emilio Carapezza e dedicate alle “Musiche rinascimentali siciliane” hanno reso possibile la pubblicazione in edizione critica di diverse opere del nostro Antonio il Verso che, in questo modo, sono a disposizione di studiosi ed esecutori.

Infatti le sue composizioni vengono eseguite più spesso che un tempo. Questo avviene un po’ dappertutto tranne, ovviamente, che a Piazza, città dell’oblio.

Domenica, 12 Agosto 2012 15:08

Antonio Gagini

Antonio Gagini, figlio di Domenico Gagini, fu uno dei più noti scultori del XVI secolo in Sicilia. Ispiratosi inizialmente alle opere del padre e di Francesco Laurana esplose letteralmente nella sua maturità divenendo il punto di riferimento di tutti gli artisti siciliani. La sua opera si distaccò dalle influenze lombarde, venete e toscane, a cui si ispiravano i suoi predecessori, donando originalità alla scuola scultorea siciliana. Il suo genio lo fece conoscere in tutta la Sicilia, cosicché una moltitudine di personaggi nobili e religiosi gli commissionò una  quantità notevole di opere.

La sua bottega divenne così una ottima scuola per i giovani artisti, frequentata tuttavia anche da molti maestri che aiutavano così Antonello a ultimare le numerose opere commissionategli. Le opere sfornate dalla famosa bottega di Antonello Gagini si trovano in tante città della Sicilia; in particolare a Piazza Armerina le ritroviamo all’interno della Cattedrale, arco del fonte battesimale, nella chiesa del Carmine, Madonna col Bambino, nel convento di San Francesco, balcone gaginesco (spendido!), nella chiesa di S. Pietro, Madonna delle Grazie e arcata marmorea all’interno della cappella dei Trigona Cimia.

Domenica, 12 Agosto 2012 15:04

La lingua gallo-italica di Piazza Armerina

Accanto alla lingua italiana e al dialetto cittadino, a Piazza si parla una varietà alloglotta di derivazione "ligure-piemontese" detta pure gallo-italica o gallo-romanza. A Piazza si chiama "ciaccès 'ncaucà". La nostra città ("oppidum lombardorum") costituisce, insieme ad alcuni altri centri della Sicilia orientale (Aidone, S. Fratello, Nicosia, Sperlinga, Acquedolci, Novara di Sicilia) una enclave linguistica allofona nell'ambito della "lombardia siciliana" nel senso che tale lingua deriva da una forte mescolanza etnica accaduta nell'XI e XII secolo tra la popolazione locale e le genti "lombarde" al seguito dei Normanni. Tale influsso settentrionale si calcò su una preesistente parlata di lingue latine, arabe, greche e normanne. Un influsso francese si ebbe col dominio di Carlo d'Angiò nel XIII sec. L'arrivo successivo degli Aragonesi che sostituirono il casato angioino creò un'ulteriore influenza linguistica dimodoché la parlata vernacolare piazzese (ma pure il dialetto cittadino) è infarcita soprattutto di termini arabi misti a quelli francesi e catalani.

Il motivo principale che portò all'emigrazione di gente nordica nei nostri territori fu principalmente quello di voler riequilibrare, da parte dei Normanni, la prevalenza numerica musulmana nell'Isola e questo avvenne mediante la fondazione di monasteri e altri meccanismi di ripopolamento attuate dai signori feudatari, come promesse di privilegi, franchigie o immunità.
La casa aleramica ebbe una grande importanza nel disegno di emigrazione, specie al termine della conquista normanna quando si creavano certamente dei vuoti demografici con lo spopolamento di molti casali e l'abbandono dei centri abitati da parte dei musulmani e dei greci residenti. Un periodo favorevole per l'emigrazione lombarda fu quello che seguì il terremoto del 1169 che devastò la Sicilia. Un altro periodo fu quello che seguì la ribellione dei feudatari contro Guglielmo I, epoca in cui furono perseguitate e soppresse le popolazioni musulmane (Piazza, per questo, fu punita con la totale distruzione).
Questa lingua oggi è parlata ormai soltanto nei quartieri della città vecchia e viene disdegnata dalle giovani generazioni della città nuova, venendo considerata come rozza e caratterizzante lo status di "villici" e non di "cittadini". Così, se un piazzese usasse sempre questo linguaggio, seppur molto colorito e pittoresco, egli verrebbe giudicato come proveniente dal ceto plebeo. Talvolta è usata, per brevi frasi, proverbi o modi di dire, dai giovani studenti in chiave ludica.
Fortunatamente il gallo-italico, oltre che nel linguaggio parlato dei vecchi quartieri del centro storico, viene usato tuttora, così come era già tradizione, nel campo poetico e letterario e così alcuni caparbi personaggi (P. Testa, S. Arena, L. Todaro, T. Platania, S. Pilotta, A. Libertino et al.) continuano coi loro scritti - quasi un'autoidentificazione e una coscienza di sé - a salvaguardarlo e trasferirlo alle future generazioni.
Appena si ode qualche piazzese usare tale lingua salta all'orecchio un'assonanza misteriosa come di incomprensibile piemontese o francese, e tuttavia affascinante e divertente.
Per assaporarne lo charme bisognerà nascostamente mescolarsi con la gente anziana nelle viuzze della città vecchia e ascoltare le loro espressioni senza dare nell'occhio.
Si avrà la sensazione di trovarsi in un paese straniero.

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